Il dono infonde nell'anima anzitutto un'abituale modestia, un santo tremore, un profondo senso di sé dinanzi a Dio. In secondo luogo trasmette una specie di reazione contraria anche alle più piccole offese, col costante proposito di evitarne ogni occasione.
EDUCHIAMO GLI ADOLESCENTI AL «TIMORE DI DIO»
Deve apparire subito evidente all’adolescente cristiano che il dono crismale del «timore di Dio» è la naturale conseguenza dell’essere diventati suoi figli nel battesimo. Non si dovrebbe aver paura di un Dio che si relaziona al figlio come un Padre, come non si dovrebbe aver paura di un padre se con lui si sperimenta quell’amore che scaturisce dalla sua paternità e che vuole proprio e in assoluto il bene del figlio. Tradotto in termini di educazione religiosa, il dono crismale dello Spirito significa che un credente che vive fortemente il rapporto filiale con il Padre, assume nei suoi confronti una paura riverenziale che gli impedisce di recargli dispiacere coscientemente. È cioè paura di dispiacergli e non di temere la sua autorità minacciosa…
Perciò anche gli adolescenti, che incominciano a sperimentare una certa autonomia dagli adulti e cambiano i loro rapporti di dipendenza dai genitori, distanziandosi un poco dal loro ruolo «autoritario», vanno educati al timore di Dio col significato che ha proprio il timore di Dio nella bibbia: il senso della grandezza e della santità di Dio che è un Padre buono. Ma è anche potente, sovrano, creatore e Signore, e trascendente. Elargisce i suoi doni, ma chiede responsabilità. Perdona sempre, ma «non va preso in giro». È un Padre, non un jolly per i momenti opportuni. Non può diventare uno strumento né per i singoli, né per i potenti, né per le organizzazioni di qualsiasi tipo. È all’origine di ogni essere, di ogni dono, di ogni grazia.
Questo significa che quando si perdono le dimensioni delle coordinate della paternità di Dio, si perdono le dimensioni della vita e della dignità umana. Si tratta di una visione a fuoco della realtà e della storia, di una consapevolezza della propria dignità e del proprio destino, della conoscenza e del gusto di Dio
Il significato specifico del dono del «timore di Dio»
Il dono del «timore di Dio» può diventare una disposizione abituale che lo Spirito infonde nell’anima del battezzato – attraverso la conferma crismale – per mantenerla nel rispetto davanti alla maestà del Signore e nella docilità e sottomissione alla sua volontà, allontanandola da tutto ciò che può «dispiacergli»; il timore è quel dispiacere che si prova quando gli si reca offesa, dal momento che si è stabilito con lui un rapporto di fiducia e di amicizia profonda, da figlio verso il Padre.
Questo dono è il fondamento e la base di tutti gli altri, dal momento che il primo passo nella via verso di Dio deve essere compiuto dal credente come fuga del male (il peccato), che ostacola proprio il rapporto di fiducia, perché non rispetta il suo piano salvifico. Così il timore di Dio diventa quella energia spirituale che permette di acquistare la «sapienza del cuore» che porta a gustare Dio, quando si comincia a temerlo, e la sapienza a sua volta perfeziona il timore. É il gusto di Dio che rende il timore di Dio «amorevole», cioè puro e scevro di ogni interesse personale.
Oltre al rispetto e al riconoscimento di quello che Dio è (cioè il Padre e il Signore), il dono dello Spirito ricorda all’uomo che egli non può essere il metro di se stesso e quindi il padrone del bene e del male; dunque deve cercare in Lui il fondamento della sua vita e dei valori in cui credere. Gli rivela cioè che Dio è principio e fondamento di tutto. Anche se l’uomo tentasse di nascondersi in fondo al mare, da Dio non si può fuggire, perché egli, come il Signore, non è fuori di lui, ma dentro di lui.
La prima conseguenza è allora che il timore di Dio deve portare il credente a parlare bene di lui: con amore, con rispetto, con conoscenza, con proprietà; deve preoccuparsi di non sfigurare la sua immagine, di non renderla distante o peggio ancora poco amabile, di non farne delle caricature o delle macchiette.
Anche per gli adolescenti dovrebbe essere passato il tempo in cui Dio poteva semplicemente apparire dall’esterno come un maestro e un padrone. Ma se, come dimostrano alcune risposte alla domanda «che cosa significa Dio per te» («una quantità di energie e di forza nei momenti difficili»; «un punto di orientamento nelle burrasche, una guida, un rifugio quando mi sento perduto»), esiste in generale questa visione più esteriore ed egocentrica del rapporto, allora sarà necessario recuperare il fondamento: ristabilire una riscoperta dell’amore (come timore di dispiacergli) nella dimensione di fede del dono ricevuto.
Purtroppo chi si accontenta di un cammino a piccolo cabotaggio, perché superficiale e distratto da eventi poco importanti, non può nutrire nessuna speranza di poter raggiungere una perfezione più alta; forse per questo motivo molti adolescenti vivono sentimenti di fiacca spirituale che non può sostenere certo il loro impegno di fede. Dio non merita di essere servito col solo sentimento, ma in piena fedeltà e offre la sua grazia per questo; l’uomo è chiamato a cooperarvi.
La beatitudine che corrisponde al dono del timore è il «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3). La nudità di spirito, che richiede un non attaccamento ad ambizioni e beni umani, è la conseguenza del perfetto timore di Dio, che porta a sottomettersi pienamente a lui e a non stimare nulla di grande fuorché lui, facendo mettere in second’ordine tutto il resto: noi stessi, il successo, la ricerca delle comodità temporali.
I frutti dello Spirito Santo corrispondenti a questo dono sono la modestia, la temperanza e la purità delle intenzioni. Il primo, perché niente favorisce di più la modestia che questo amoroso rispetto di Dio, ispirato dal timore filiale; gli altri due, perché, troncando o disciplinando l’uso delle comodità della vita e dei piaceri corporali, contribuiscono, con il dono del timore, a tenere a freno gli istinti contrari alla legge dell’amore.
Il dono infonde nell’anima anzitutto un’abituale modestia, un santo tremore (contro ogni atteggiamento di spregiudicatezza e di sfacciataggine), un profondo senso di sé dinanzi a Dio. In secondo luogo trasmette una specie di reazione contraria anche alle più piccole offese, col costante proposito di evitarne ogni occasione. E genera un’umile confusione della propria colpa quando se ne prende coscienza. Come è pure evidente una diligente vigilanza per frenare le tendenze sregolate, facendo prendere coscienza del proprio atteggiamento interiore contrario alla fedeltà del perfetto servizio di Dio.
Ciò significa uscire dalla situazione di superficialità, dal carattere di improvvisazione e di occasionalità delle scelte di vita cristiana, dalla incapacità di un vero e continuo impegno cristiano di tanti ragazzi… Bisogna purtroppo riconoscere che si vanifica il dono dello Spirito, se ogni giorno, per negligenza o per pigrizia, viene a mancare la continua conversione del cuore a Dio. Bisogna aiutare i ragazzi a persuadersi che le azioni esterne in cui mettono tutto il loro impegno non sono che la superficie della propria identità, e che l’interiorità dello spirito ne costituisce invece la pienezza.
Indicazioni metodologiche per l’educazione religiosa
Appare scontato che la riflessione fatta e le indicazioni metodologiche che seguono hanno senso solo se esiste una pastorale giovanile, dentro cui è possibile dialogare catechisticamente coi ragazzi, accompagnandoli nella formazione di una buona immagine di Dio, che sia sostanzialmente diversa da quella di un qualsiasi «amicone»; ma anche da quella altrettanto errata di un controllore, di un tiranno, o solo di un giudice severo.
* Bisogna evitare prima di tutto che si deformi l’idea di un Dio-persona, stravolgendone l’identità rivelata. Esistono forse ancora nei nostri ragazzi delle deformazioni, come rimasugli di una sua infantile conoscenza. Gli esempi sono molteplici: una fiaba che serve ad imbonire i bambini; il genio della lampada di Aladino; un distributore automatico di favori; il motore immobile di tutto l’universo; lo «scapolone» solitario lontano mille miglia dai grandi problemi dell’uomo; un giudice spietato che non perdona e che castiga; il deus ex machina delle tragedie greche che interviene solo alla fine per risolvere le questioni insolubili per l’uomo e per rendergli giustizia; il tappabuchi o il supplemento alla incapacità dell’uomo; una ipotesi inutile (tanto credere o non credere è la stessa cosa); l’homo homini deus (cioè una proiezione umana di ciò che l’uomo avrebbe voluto diventare); un’idea dell’uomo (forse utile per l’equilibrio sociale, una garanzia sopra le parti per la convivenza civile); la parola di Dio non ha senso (ha senso ciò che io posso verificare e toccare); questo Dio non mi va, perché mi sembra insensibile di fronte alla morte degli innocenti…
* I ragazzi dovranno essere messi nella condizione di superare anche quella rigorosa idea di un Dio che guarda l’uomo dall’alto, senza comprenderne le loro debolezze. Di Dio bisogna temerne la collera:
– se non si raggiunge mai una purezza di cuore e non si riesce sempre a vigilare attentamente sui moti del proprio cuore e sui propri pensieri; è necessario perciò educare a prendere coscienza che è urgente assumere atteggiamenti di giustificazione;
– se non ci si impegna ad ottenere una piena vittoria sulle proprie inclinazioni cattive o per mancanza di attenzione o per poca resistenza nel combatterla. A Dio Padre bisogna imparare a saper chiedere l’aiuto necessario per costruire il nostro progetto di figli;
– se si crede di essere così perfetti da non aver alcun bisogno di esami particolari. A Dio Padre bisogna manifestare la propria incapacità e imparare ad affidarsi totalmente a lui;
– se si crede in un Dio soltanto onnipotente, onnisciente, eterno, che lascia soli gli uomini con i loro problemi e i loro dubbi; che forse li fa anche smarrire in una realtà molto complessa… Di Dio Padre bisogna imparare a vederne il volto in quello trasparente di Gesù di Nazareth; con lui egli si mostra un compagno sempre e dovunque; un collaboratore benevolo e comprensivo; un amico che condivide la pienezza della vita.
* Bisogna aiutare ad evitare anche il pericolo opposto; quello cioè di un eccessivo spirito di timore che può ostacolare le comunicazioni e gli effetti che l’amore divino opererebbe in chi se non lo trovasse chiuso e freddo a motivo di una paura paralizzante. Se si riflette sulla reazione timorosa della Vergine Maria all’annuncio dell’Angelo (Lc 1,29), si può scoprire che è stato un incontro tanto imprevedibile come quello che ogni credente può fare quando si confronta con l’esperienza della visita di Dio e della irruzione del suo Spirito nella sua vita. L’impressione che Maria manifesta è lo sconcerto che non diventa agitazione convulsa, ma si traduce in una ricerca attenta e in una umile riflessione sul senso di quanto sta avvenendo.
* È necessario anche portare alla consapevolezza che un altro vizio opposto al dono del timore può essere quel certo spirito di orgoglio, di indipendenza e di spavalderia che spesso gli adolescenti assumono anche nei confronti dell’esperienza religiosa e che induce a voler assecondare solo le proprie inclinazioni e a non voler sopportare nessuna dipendenza. Così ci si presenta dinanzi a Dio con poco rispetto e con poca riverenza, si disprezzano le sue ispirazioni, si trascurano le occasioni di pratica della virtù, si vive nella dissipazione e nella tiepidezza. Bisognerà evidenziare quanto questo non saper prendere posizione in relazione a Dio sia pericoloso, alla luce della fede.
* Uno dei modi migliori per far interiorizzare il rapporto personale e fiducioso con Dio, espresso dal dono del timore, è anche quello della preghiera. Ma se gli adolescenti hanno difficoltà a pregare, lo è perché spesso essa appare loro in forme che spersonalizzano o sanno di fuga dall’impegno nella vita. Le modalità di preghiera intimistica, anonima, spersonalizzante, sono anche di per se stesse fuorvianti rispetto al vero senso cristiano. L’educazione al «mettersi in contatto col Padre», in una specie di scambio di messaggi attraverso il telefonino (come metafora adolescenziale di un imparare a pregare) prevede ambiti pastorali diversi da armonizzare, rendendoli sempre più accessibili: preghiera personale, incontri riflessivi di gruppo, partecipazioni alla preghiera della comunità più grande…
Ogni forma di preghiera deve essere personalizzata dall’adolescente, se si vuole che entri in quella forma di relazione amichevole con Dio, il Padre, di cui oggi dovrebbe riuscire a intravederne una immagine autorevole. Ma se tale gli appare può essere perché ne accetta soprattutto dialogo e collaborazione.
* L’amore alla vita che l’adolescente dimostra dovrebbe essere per l’educatore alla vita di fede anche quel movente psicologico che ne costituisce la piattaforma di aggancio: l’adolescente deve imparare a sperimentare che Dio, come Padre, è colui che dà la vita e che mantiene in vita e vuole che la vita dei suoi figli sia piena e riuscita; vuole che essi imparino a crescere e ad essere autonomi senza esserne indipendenti; desidera che sappiano approfittare degli aiuti che egli come Padre non cessa mai di offrire ai suoi figli.
A questo scopo è necessario che essi acquistino familiarità con la Parola di Dio, che non invita mai a cedere alle mode del momento, ma a fondare su fondamenta stabili la propria realtà umana e vocazionale. Fino a che punto il conformismo, lo spirito di massa, l’incapacità critica… condizionano le scelte di tanti ragazzi… tanto da far loro credere di essere «liberi» e invece cadono nel più illusorio atteggiamento libertario?
* Conclude il testo del Catechismo: «Questa tua vita è il luogo in cui oggi tu cresci fino alla maturità: il Signore ha messo dentro ai fatti una forza capace di spingere in avanti e di provocare. Tutte le esperienze, soprattutto le più dure, hanno il potere di sorprenderci, di far sentire esigenze più profonde e, quindi, di sollecitare a cercare risposte e ad inventare soluzioni. È in questa sete di novità e di realizzazione che è dato di incontrare Dio, perché lo incontra solo chi si apre ad una vita più vera e che cerca una felicità non fittizia; chi vuole cioè sperimentare la salvezza» (p. 21).
Giuseppe Morante
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