Il mondo dei giovani adulti non è poi così chiuso e concluso: c'è tutta la volontà di leggere bene ogni riga del libro della vita, scorrerne le pagine, soffermandosi sulle pause, tratteggiando una nuova punteggiatura.
del 31 dicembre 2009
 
Sono stato invitato a parlare in una scuola, da un giovane che qualche tempo fa ha svolto opera di volontariato nella Comunità Casa del Giovane, per partecipare a un dibattito sul tema della violenza e della giustizia, sul disagio che incancrenisce la società intera. In un momento così atomizzato dalle incurie educative, occorre davvero incontrarsi e discutere, soprattutto parlare e ascoltare, e ancora dapprima ascoltare e poi parlare, senza lesinare attenzione all'educazione che scaturisce dal confronto.
 
Il mondo dei giovani adulti non è poi così chiuso e concluso: c'è tutta la volontà di leggere bene ogni riga del libro della vita, scorrerne le pagine, soffermandosi sulle pause, tratteggiando una nuova punteggiatura. Quanto accade 'normalmente', nelle strade, nelle case, nelle scuole, più o meno consensualmente, è il risultato di un andazzo che non può essere licenziato come qualcosa di sconosciuto, per cui ogni volta rimaniamo sorpresi, poi tramortiti.
Educare non è una strategia da imparare in fretta, per fare saltare il banco, quello della convivenza civile, della legalità, della giustizia, più o meno intesa malamente dal mondo adulto, figuriamoci da chi si beffa dell'autorità e delle regole condivise perché adolescente. Non so se mi è stato chiesto di interloquire sul disvalore della violenza per il mio ruolo nella Comunità Casa del Giovane, o per la mia storia personale, o per quanto sta attraversando le linee mediane del nostro Paese.
Ciò che importa è questa voglia di parlare, questa capacità dei ragazzi di non rimanere imprigionati in una 'suggestione', una rappresentazione così falsata dal presente da negare accesso al futuro, il loro futuro. Questa emergenza educativa che spesso denunciamo non è altro che la conseguenza dell'atteggiamento di chiuderci per stanchezza, e poi reagire sconsideratamente come educatori-formatori.
Non è semplice discutere di violenza, di ricerca di equità e di equilibrio della rendicontazione: è certo meno oneroso ridurre i giovani a individui arrendevoli, confusi, additandoli sbrigativamente per quelli del tutto e subito, senza mai passare ai raggi X i nostri comportamenti nei loro riguardi. Parlare di violenza, di disagio giovanile, di droga, di carcere, può significare non solamente vincere un pregiudizio, la propria inadeguatezza, la durezza di corrispondere all'eroe di turno, spesso negativo e quasi sempre adulto, che insegna a liberarsi dall'insopportabilità del limite, della regola, della rinuncia, attraverso la violenza e i comportamenti devianti.
Forse con questo incontro qualcuno riuscirà a consegnare ai propri coetanei il peso di una giustizia che è rigetto della violenza, e darà a me, dinosauro adulto, la speranza che non tutto è perduto. 
Vincenzo Andraous
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