In realtà tutti gli uomini vorrebbero costruire la loro vita sulla roccia degli affetti stabili, e non sulla sabbia delle passioni mutevoli, delle paure e degli egoismi. Compito dello Stato è tutelare e difendere questo desiderio originario, e non altro.
del 24 febbraio 2007
I giovani hanno veramente bisogno dei Dico? Stiamo guardando al loro futuro, stiamo forse pensando a loro?
Per rispondere a questa domanda, così essenziale, vorrei partire dalla vita, dall’esperienza concreta. Qualche sera fa ho portato al cinema una mia classe, a vedere 'La ricerca della felicità' di Gabriele Muccino. Un film ispirato ad una storia vera. La storia di una famiglia in cui la madre abbandona marito e figlio, perché i disagi economici rendono la vita, per lei, insopportabile. Il padre, invece, vuole tenere duro: ha avuto anche lui una infanzia difficile, ha conosciuto suo padre molto avanti negli anni, e vuole per suo figlio qualcosa di diverso. Il film è tutto giocato su questo rapporto, tra padre e figlio: il padre che domanda di continuo al suo bambino se ha fiducia in lui. E il bimbo che si affida, come tutti i bimbi, a chi lo ama. Poi, alla fine del film, ho riportato a casa una mia alunna: non a casa sua, ma di sua nonna. Il padre, infatti, vive da una parte, la madre da un’altra, e lei con la nonna. Vede sua madre in giorni prestabiliti, ma non per molto, né con grande gioia: «Lei tanto è indaffarata col suo moroso». Io, che ho vissuto in una bella famiglia, unita, felice, non ho potuto non commuovermi, e chiedermi: cosa stiamo dando, ai nostri giovani? Tutti in fondo se lo chiedono: cosa gli stiamo dando, per quanto riguarda la famiglia, o per quanto riguarda il lavoro.
 
Il grande finanziere George Soros, un ebreo ungherese che vive in America, ha scritto un libro, 'Soros su Soros' (editirce Ponte alle Grazie), molto utile per capire dove stiamo andando. In esso ci parla delle sue doti di 'filantropo': si batte, con le sue infinite disponibilità economiche, in collaborazione con Hugh Hefner, proprietario di Playboy, per una «società aperta», cioè una società in cui vi sia droga libera, mobilità lavorativa, mercato libero, emigrazione e immigrazione… in cui «la struttura organica di una società si è disintegrata al punto che i suoi atomi, gli individui, si muovono in varie parti senza radici». In questa società, scrive Soros, «amici, vicini di casa, mariti e mogli diventano, se non intercambiabili, almeno prontamente rimpiazzabili da sostituti impercettibilmente inferiori, o superiori… il rapporto tra genitori e figli rimane presumibilmente fisso, ma i legami che li uniscono potrebbero diventare meno importanti». L’essenziale, prosegue Soros, è che «nelle società aperte ogni individuo deve trovarsi da solo il proprio scopo di vita», sapendo che la libertà è semplicemente la possibilità dell’individuo di «conseguire il proprio interesse personale come egli lo percepisce».
 
Ma noi siamo veramente fatti per questo? Siamo veramente fatti «per il nostro interesse personale», per muoverci di continuo, per continuare a cambiare lavoro e dimora? Siamo fatti per avere più famiglie, più genitori, amici e vicini intercambiabili, e cioè senza valore? A me non sembra. Mi pare, al contrario, che tanti giovani non credono più all’amore per sempre perché gli abbiamo tolto la terra sotto i piedi: abbiamo reso ardua l’opzione famiglia, con le mille paure e con la sfiducia che caratterizzano la cultura odierna, e poi rimandando di continuo l’età della indipendenza lavorativa, precarizzando il lavoro, omettendo ogni politica sociale a favore della famiglia…
 
L’uomo, invece, è l’unico 'animale' che ha bisogno di sicurezza, di stabilità, di fedeltà, di unità: l’unico che rimane legato alla famiglia d’origine, per tutta la vita; l’unico che dipende da essa per moltissimi anni; l’unico che tendenzialmente ama per sempre; l’unico che mantiene il legame con i suoi cari, tramite la tomba, persino dopo la morte… L’uomo crea e desidera amicizie stabili, una dimora fissa, un lavoro che non cambi di continuo… Su questa stabilità costruisce la sua identità, il suo essere qualcuno, la sua tranquillità interiore. Il figlio ha la necessità di poter contare sui suoi genitori, vive della loro unità e soffre delle loro discordie; il marito e la moglie, hanno bisogno di poter contare sul coniuge, di aver in lui una sicurezza, un aiuto, un conforto.
 
Lo dimostra molto bene il caso dei figli adottati o, ancor di più, di quelli nati con fecondazione artificiale eterologa. I primi, infatti, ricercano di solito i loro genitori naturali, desiderano conoscerli, anche se si trovano benissimo nella famiglia adottiva. I nati da eterologa, invece, come racconta Chiara Valentini, giornalista de L’espresso, nel suo 'La fecondazione proibita' (editrice Feltrinelli), divenuti maggiorenni si mettono spesso sulle tracce del loro padre o della loro madre genetici: eppure non li hanno mai visti, neppure di lontano!
 
Ebbene cosa stiamo costruendo noi con i Dico? Stiamo creando una società sempre più aperta, ma nel senso di liquida, di sfuggente, di instabile ed incerta… in cui un figlio, o una moglie, si cambiano come si cambia il lavoro, anzi più in fretta ancora di un co.co.co, o come si cambia un cellulare, affinché l’economia continui a girare… Così facendo però non costruiamo l’uomo, ma lo decostruiamo: torneremo nomadi, come nei tempi preistorici: nomadi spirituali, cioè uomini soli, senza radici, senza storia, senza legami. I giovani non vogliono questo: soprattutto quelli come la mia alunna, che ha sperimentato su di sé l’incertezza dell’amore, vogliono altro. È la mia personale riflessione, ma anche la mia esperienza quotidiana di insegnante. Tutti vorrebbero costruire sulla roccia degli affetti stabili, e non sulla sabbia delle passioni mutevoli, delle paure e degli egoismi. Compito dello Stato è tutelare e difendere questo desiderio originario, e non altro.
Francesco Agnoli
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)