Ma l'incontro con un testo è problematico più dell'incontro con una persona: perché il testo è più impotente della parola viva del parlante che in ogni istante può definire e ridefinire il senso delle parole che dice; ma soprattutto perché tra il lettore e il testo si scava una distanza più grande
Scrive Basilio di Cesarea nel IV secolo d.C. (329-379): «Il salmo è tranquillità dell’anima, arbitro di pace, allontana il tumultuare e l’ondeggiare dei pensieri. Reprime infatti l’ira dell’animo, corregge e modera la sfrenatezza. Il salmo concilia l’amicizia, riconcilia coloro che sono separati, dirime le inimicizie. Chi infatti può ancora ritenere come nemico colui col quale ha elevato a Dio un unico, comune canto? Così la salmodia procura anche il massimo dei beni, l’amore, in quanto introduce l’uso del canto comune, come una specie di vincolo di concordia, e in quanto fonde armoniosamente la moltitudine nella sinfonia di un solo coro. Il salmo fuga i demoni, richiama l’aiuto degli angeli. È scudo nei timori notturni, è pausa nelle fatiche diurne; è sicurezza dei fanciulli, ornamento di coloro che sono nel fiore dell’età, consolazione ai vecchi... È la base per coloro che muovono i primi passi sulla via della perfezione, incremento di coloro che progrediscono in questo cammino, sostegno di coloro che giungono alla meta» (testo in S. Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della chiesa, Elle Di Ci, Torino 1966, p.VII).
Qual è la reazione di un giovane di fronte a questo testo stupendo che tesse l’elogio dei salmi per la loro bellezza e soprattutto per la loro potenza «terapeutica», risanatrice dell’anima («allontana il tumultuare e l’ondeggiare dei pensieri») e riconciliatrice delle relazioni infrante («riconcilia coloro che sono separati, dirime le inimicizie»)? Di interesse oppure di indifferenza? Di sorpresa oppure di incredulità? Di adesione entusiasta oppure di critica demitizzante? Si lascerà prendere anche lui dalla «passione» per il salmi oppure continuerà a sentirli estranei e avulsi dalla propria sensibilità?
La tradizione ebraica e le tradizioni cristiane da millenni utilizzano questi testi per narrare e tramandare di generazione in generazione il mistero dell’incontro e del dialogo tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra. Abbandonarsi a questa tradizione – come una barca si abbandona alle acque del fiume – è entrare nell’avventura di questo misterioso dialogo tra il divino e l’umano: da soggetti «confessanti», se ci si riconosce credenti, oppure da soggetti «uditori», se ci si proclama dubbiosi, incerti, indecisi o increduli. Per leggere un salmo (o per «pregare con un salmo» o «pregare un salmo») non si richiede necessariamente la fede ma, anteriore a questa, la disponibilità ad ascoltare ciò che in esso si dice. La fede è assenso a ciò che viene detto; ma l’assenso – il dire sì a ciò che è detto – presuppone l’ascolto: il fare spazio all’altro (in questo caso il testo) che parla. I salmi, prima che espressione della fede in Dio, sono la narrazione dell’amore tra Dio e l’uomo. Per questo essi sono un dono per tutti: per il credente che si riconosce in quella storia; per il non credente che l’ascolta o riascolta per decidere se entrarvi.
Nozioni fondamentali
L’incontro con un testo, non diversamente dall’incontro con una persona, è incontro con un’alterità che esige recettività e giudizio: la recettività come ascolto di ciò che in esso si dice («ho capito») e il giudizio di assenso («sono d’accordo») o dissenso («non sono d’accordo») su ciò che dice.
Per questo l’incontro con un testo non lascia mai uguali e da esso si esce sempre trasformati: perché ci si arricchisce della sua verità, nel caso dell’assenso; perché si deve accettare il confronto con la sua diversità, nel caso del dissenso.
Ma l’incontro con un testo è problematico più dell’incontro con una persona: perché il testo è più impotente della parola viva del parlante che in ogni istante può definire e ridefinire il senso delle parole che dice; ma soprattutto perché tra il lettore e il testo si scava una distanza più grande, sia dal punto di vista temporale (un testo di oggi può essere letto a distanza di secoli e di millenni) e ancor più dal punto di vista culturale (un testo nato in una determinata cultura può essere letto entro e da altre culture).
È questa la ragione per la quale dialogare con un testo – ascoltarne il messaggio e lasciarsene provocare – esige mediazioni complesse e articolate, a seconda della distanza temporale e culturale che da esso separa. Queste mediazioni, oggetto di una scienza particolare chiamata ermeneutica, sono le condizioni preliminari senza le quali il testo resterebbe per sempre muto e inefficace.
Cosa sono i salmi
Quando si parla di salmi, si intende una raccolta di testi poetici attraverso i quali Israele ha espresso il suo rapporto peculiare con il Dio di Abramo, di Isacco e di Mosè. Il termine salmo è di origine greca (psalmos) e traduce la parola ebraica mizmor che in genere vuol dire «inno». Nel Codice Alessandrino (secolo V d.C.) questa intera raccolta è chiamata salterio, termine che originariamente designava qualsiasi strumento musicale a corda (cf Dn 3,5).
Nella bibbia ebraica il libro dei salmi è nominato, come tutti gli altri, con le prime parole con cui inizia, e solo più tardi è stato chiamato dal giudaismo con il termine tehillim, dalla radice tehillah, che vuol dire «lode»: scelta motivata dal fatto che una buona parte delle sue composizioni sviluppano il tema della lode e del ringraziamento a Dio.
Queste composizioni sono per l’esattezza 150, suddivise in cinque libri di diversa grandezza (I: 1-41; II: 42-72; III: 73-89; IV: 90-106; V: 107-150), riconoscibili dalla identica formula dossologica con cui ognuno si conclude: «Benedetto il Signore Dio d’Israele». La ragione di questa divisione in cinque libri può essere posta in relazione con i cinque libri di Mosè (il cosiddetto «Pentateuco») oppure, più probabilmente, con i 150 brani di lettura sinagogale triennale ognuno dei quali sarebbe stato accompagnato da un testo poetico cantato.
Chi li ha composti
I salmi sono opere letterarie di cui non si conoscono gli autori, anche se la bibbia attribuisce la maggior parte di essi a Davide (ben 73), 12 ad Asaf, 11 ai figli di Core, 1 a Heman, 1 ad Etan (per questi personaggi minori cf il primo libro delle Cronache 15, 16-19), due a Salomone e uno allo stesso Mosè. Essendo Davide l’autore più citato ed essendo egli rimasto celebre per il suo talento musicale e poetico (cf 1 Sm 16, 16-18; 2 Sm 1, 19-27; 2 Sm 23, 1), la tradizione giudaica e cristiana l’ha ritenuto in pratica l’autore dell’intero salterio, come fa lo stesso concilio di Trento che parla di «salterio davidico».
La critica ritiene che queste attribuzioni non vadano prese alla lettera perché prive di valore storico; al massimo potrebbero rimandare al particolare contesto storico e teologico in cui alcune collezioni si sarebbero potute formare.
Oltre che gli autori, dei salmi si ignora pure il tempo della composizione. La datazione tra gli studiosi diverge così profondamente che un salmo assegnato da alcuni all’epoca dei Giudici dagli altri viene attribuito all’epoca dei Maccabei, con una differenza di quasi mille anni l’una dall’altra. A parte comunque le difficoltà di datazione, si riscontra oggi un certo consenso nel ritenere che alcuni salmi sono stati composti in epoca pre-esilica, altri in epoca esilica e altri ancora in epoca post-esilica e che comunque l’intera raccolta delle 150 composizioni che costituisce il libro dei salmi era sicuramente conosciuta e ultimata già nel III secolo a.C, come ci attesta la traduzione dei LXX, portata a termine ad Alessandria d’Egitto proprio in questo tempo.
Il fatto comunque che dei salmi si ignorano gli autori e le date di composizione dal punto di vista teologico e spirituale non ha molta importanza. Importante piuttosto è la loro potenza espressiva e poetica che trascende i limiti del tempo e dello spazio ed è per questo aperta ad una dimensione universale.
In che lingua sono stati scritti
Le 150 composizioni del salterio sono state composte, come la maggior parte degli altri libri dell’Antico Testamento, in lingua ebraica, tramandate prima oralmente e poi messe per iscritto successivamente.
Il testo a nostra disposizione è denominato masoretico, così chiamato perché in esso le consonanti (come è noto la lingua ebraica, come tutte le lingue derivanti dal fenicio, si scrive solo con le consonanti) hanno l’aggiunta di «una interpretazione» vocalica tramandata oralmente (di qui il termine masorah, da cui masoretico) e poi fissata per iscritto mediante un sistema di segni escogitato dalla varie scuole rabbiniche e portato a termine nel secolo X dell’era cristiana. Le recenti scoperte di Qumram (1947), dove tra l’altro è stato ritrovato il testo completo del profeta Isaia risalente al I secolo a. C., confermano la sostanziale correttezza del testo masoretico che solo poche volte apporta aggiunte arbitrarie e, in ogni caso, sempre secondarie.
Tramandati e messi per iscritto in ebraico, i salmi furono tradotti per la prima volta in lingua greca nel III secolo a. C. ad Alessandria dai cosiddetti Settanta: i settanta (in realtà settantadue, anche se per comodità il numero è stato in seguito arrotondato a 70) saggi ed esperti, 6 per ognuna delle 12 tribù di Israele, che in 72 giorni avrebbero separatamente portato a termine la traduzione della bibbia, coincidendo perfettamente, come per miracolo, in ogni particolare. Questa storia affascinante è riportata ne La Lettera di Aristea (nota anche con il titolo Sulla traduzione greca della legge ebraica), un testo datato tra il III secolo a.C. e il I a.C e che ora è a disposizione del pubblico italiano nella preziosa collana dei «Classici della Bur» (Rizzoli, Milano 1995).
La traduzione dei Settanta rappresenta un evento straordinario (ed è per questo che ne parliamo in questa parte introduttiva) difficilmente immaginabile: sia perché il Nuovo Testamento parla dell’Antico Testamento citando i Settanta, sia perché le scritture ebraiche sono arrivate fino a noi attraverso la traduzione greca. Senza questa traduzione la bibbia non sarebbe entrata nell’occidente e il silenzio della natura e della storia non sarebbe stato interrotto dalla parola divina instauratrice di dialogo.
Alla traduzione dei Settanta ne sono seguite molte altre. Per l’occidente la più importante è stata la cosiddetta Vulgata di san Girolamo (347-420 circa) in latino che, fino al Vaticano II, per la chiesa cattolica ha costituito l’unica porta di accesso al testo biblico e in modo particolare ai salmi, entrati a far parte della preghiera quotidiana dei monaci e degli ordini religiosi e cantati o recitati giorno e notte nelle abbazie e nelle cattedrali. Dal Vaticano II è iniziato il grande movimento delle traduzioni in lingua volgare per permettere a ciascuno di riappropriarsi della parola di Dio nella propria lingua. In questa avventura di «riappropriazione» si è appena agli inizi e il cammino da percorrere resta ancora lungo.
I generi letterari
I salmi sono una raccolta di 150 composizioni poetiche diverse l’una dall’altra sia dal punto di vista dei contenuti che da quella della loro forma letteraria. Ma al di là dei contenuti specifici e della forma peculiare (che di ogni salmo fa un’opera poetica «unica» e «singolare») si notano tra le 150 composizioni delle costanti, cioè delle particolari modalità espressive che ricorrono con una certa regolarità e che costituiscono come degli schemi, moduli, strutture o «generi» (un po’ come i poeti di una volta che si servivano della metrica, della terzina o del decasillabo) ai quali gli autori ricorrono per esprimere la loro personale esperienza oppure determinate situazioni collettive, quali ad esempio l’azione liturgica, la celebrazione delle feste, l’intronizzazione del re, l’arrivo dei pellegrini a Gerusalemme, ecc.
Secondo H. Gunkel, il grande studioso tedesco che, con i suoi due volumi apparsi nel 1928 e 1933, ha rivoluzionato gli studi biblici sui salmi, «i generi letterari» entro i quali si potrebbero raggruppare la maggior parte dei salmi sono circa una diecina: i salmi di lode, i salmi di lamentazione individuale, i salmi di lamentazione collettiva, i salmi di fiducia, i salmi di ringraziamento individuale, i salmi regali, i salmi di Gerusalemme o del pellegrinaggio e i salmi sapienziali. Tra questi i più importanti sono quelli di lode, di lamentazione, di ringraziamento individuale e sapienziali.
I salmi di lode (cf 8, 19, 29, 33, 65, 68, 96, 98, 100, 103-105, 111, 113-115, 117, 135, 136, 145-150) sono composizioni in cui si «bene-dice» Dio, cioè si «dice bene» di lui, perché sorgente di tutti i beni che riempiono l’esistenza umana facendone un’esistenza felice e buona. Questi salmi hanno una struttura quasi sempre tripartita: un’introduzione che consiste nell’invito alla lode («lodate», «cantate», «benedite», «celebrate»; oppure: «voglio cantare», «benedire»; «anima mia loda il Signore»; oppure ancora: «sia benedetto il Signore»); il corpus centrale, che consiste nel dispiegamento delle ragioni che fanno sì che Dio sia lodato e bene-detto e che si racchiudono nelle sue qualità («perché buono», «perché misericordioso», ecc.) e soprattutto nelle sue azioni che sono la creazione e la redenzione; la conclusione, che normalmente consiste nella ripresa dell’introduzione.
I salmi di lamentazione individuale (3, 5, 7, 13, 17, 22, 25, 28, 38, 42-43, 51, 63, 69, 88, 102, 130, ecc.) o collettiva (44, 74, 79, 80, 83, 58, 106, 135) sono composizioni nelle quali il salmista grida a Dio il suo dolore in situazioni di indigenza o di oppressione, sollecitandolo ad intervenire in suo favore e pregandolo di rimuovere la causa della sofferenza. Anche qui la struttura è tripartita: un’introduzione, che consiste in una invocazione («Signore, quanti sono i miei oppressori», «Porgi l’orecchio Signore alle mie parole», ecc.); il corpus centrale che consiste nel lamento (l’uomo si lamenta del proprio male, dei nemici o di Dio stesso) e nella supplica (l’uomo chiede a Dio di intervenire invocandolo e motivandone il soccorso); la conclusione può assumere diverse forme: la certezza di essere esaudito («Il Signore ascolta la voce del mio pianto»), l’augurio per sé («Io, invece, non cesso di sperare») oppure l’offerta di un sacrificio o di un canto di ringraziamento («Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli»).
I salmi di ringraziamento individuale (9, 18, 30, 32, 34, 41, 66, 92, 116, 118, 138) sono delle composizioni dove il «graziato» (perché liberato dalla malattia, dall’oppressione o dalla ingiustizia) esprime a Dio la sua gratitudine e il suo grazie. Anche queste composizioni hanno una struttura tripartita: un’introduzione, in cui si dichiara espressamente di voler ringraziare Dio («voglio ringraziare il Signore»); il corpus centrale, costituto dal racconto di quello che Dio ha fatto per il salmista («Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito»); la conclusione, composta da una breve professione di fede in cui il salmista si impegna ad essere sempre grato a Dio («Signore mio Dio ti loderò per sempre») e/o a condividere la sua gioia con gli altri poveri («I poveri mangeranno e saranno saziati»).
I salmi sapienziali (1, 37, 49, 73, 112, 127, 128, 133) sono quelli nei quali Israele esprime la sua visione del mondo come ordine: ordine cosmico, ordine sociale e ordine etico individuale in cui si riflette la Sapienza divina (cf il libro della sapienza, soprattutto dal capitolo 10 in poi), conoscendo ed assecondando la quale l’esistenza umana si fa felice e buona. Per Israele l’asse portante della visione sapienziale è il principio alleanza così come si è espresso soprattutto nel libro del Deuteronomio: il principio secondo cui l’uomo è il partner di Dio, responsabile con Dio dell’ordine del mondo e della sua riuscita. In questi salmi è più difficile rintracciare uno schema letterario ricorrente; generalmente il testo si dispiega intorno alla descrizione del giusto (l’uomo che agisce secondo il principio alleanza) o dell’empio (l’uomo ingiusto che lo ignora o lo tradisce): il primo abitato dalla felicità che permane («come albero piantato lungo corsi d’acqua»), il secondo dall’apparenza ingannevole e fugace («come pula che il vento disperde»).
Carmine Di Sante
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