I giovani faticano a incanalare il loro desiderio di Dio nelle forme ecclesiali della fede, a sintonizzarsi con il messaggio cristiano. Non sono contro Dio e contro la Chiesa, ma semplicemente hanno imparato a viverne senza.
del 15 dicembre 2011(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
Intervista a don Armando Matteo
          L’istituto di ricerca lard, che da 50 anni compie indagini sociologiche sui fenomeni legati alla condizione giovanile, ha di recente pubblicato una ricerca dal titolo I giovani di fronte al futuro e alla vita per cercare di far luce sul rapporto dei giovani con la fede. I dati paiono inquietanti: solo il 52,8% degli intervistati tra i 18 e i 29 anni si dichiara cristiano-cattolico, nel 2004 era quasi il 67%.
          Il curatore della ricerca, il sociologo Riccardo Grassi, in un'intervista a Famiglia Cristiana ha ammesso che l'80% «evidenzia un'attenzione verso la dimensione del sacro» ma quest'ultima, come ha precisato lo studioso, «s'identifica sempre meno in un'appartenenza religiosa specifica e sempre più in una relazione individuale con un'entità divina estranea ai canoni tradizionali». Dati confermati dalla partecipazione personale alla liturgia: 46,6% (contro il 56% nel 2004) ha partecipato alla messa di Natale.
          Enzo Bianchi, il priore di Bose, dal canto suo, commentando il rapporto lard in un articolo apparso su La Stampa del 25 aprile scorso si dichiarava d'accordo con la tesi di don Armando Matteo, che nel suo recente libro, “La prima generazione incredula”, ipotizza un momento di rottura decisivo nella trasmissione della fede proprio nei giovani compresi nella fascia di età dell'indagine citata. Bianchi insiste sul fatto che la fede è qualcosa di trasmesso «da persona credibile a persona aperta alla possibilità di credere» in contesti come la famiglia, le associazioni, la parrocchia, il quartiere, tutte realtà che rappresentano l'ambito vitale della quotidianità.
          Altri contesti invece, legati alla categoria 'grande evento', piuttosto estemporanei e tanto in voga negli ultimi decenni, hanno finito per creare «una sorta di assuefazione allo straordinario e un conseguente disinteresse, noia, se non disgusto, per la quotidianità del vissuto». Ma qual è la tesi di don Armando Matteo, 40 anni, assistente nazionale Fuci dal 2005, professore di teologia alla Pontificia università urbaniana e all'Istituto teologico calabro, con 8 anni di pastorale parrocchiale sul groppone?
 Don Armando, partiamo dalla tesi del libro: la prima generazione incredula. Cosa significa?
          «I giovani, e per giovani intendo quelli nella fascia d'età 20-30 anni, faticano a incanalare il loro desiderio di Dio nelle forme ecclesiali della fede, a sintonizzarsi con il messaggio cristiano. I giovani non sono contro Dio e contro la Chiesa ma hanno imparato a viverne senza. Da una parte le famiglie di origine non hanno trasmesso loro la bellezza per la vita di fede, per una vita pienamente umana; dall'altro le comunità parrocchiali sono ancora solamente luoghi di 'esercizio' della fede ma non sono ancora diventate luoghi di 'generazione' alla fede e questo perché in Occidente da sempre il luogo deputato a questo erano le famiglie, le mamme, le nonne. «Tutto questo è venuto meno perché i nonni di questi ragazzi, gli attuali 50-60enni, sono quelli che hanno vissuto in prima persona il '68. Mentre loro avevano ricevuto la testimonianza della bellezza della fede, il '68, quello spirito di rinnovamento che aleggiava allora nella società, ha di fatto causato in queste persone un prendere le distanze dalla Chiesa, dalle forme della preghiera e della vita comunitaria e le ha portate verso la china di un individualismo sempre più marcato, quello che ha vissuto la sua apoteosi negli anni '80. I loro figli hanno frequentato l'insegnamento di religione ma a casa non discutevano con i genitori delle questioni di fede. E’ venuta a mancare così la fondamentale dimensione della testimonianza a causa dell'allentamento del legame con la comunità ecclesiale. Nel frattempo è sopraggiunta una cultura nuova con parole d'ordine molto diverse e lontane dal Vangelo».
 L'ultimo rapporto lard parla di un calo della fede nei giovani. Come legge questo dato?
          «Da una parte conferma questa fatica delle famiglie a essere luogo di iniziazione alla fede cristiana. Dall'altra fa emergere un dato singolare: nel 2004, l'anno dell'ultimo rapporto, i vescovi italiani hanno scritto il documento II volto missionario delle nostre parrocchie sulla base di una sensibilità che faceva emergere il bisogno che le Giornate mondiali della gioventù, nel loro enorme potenziale evocativo, avessero poi una ricaduta effettiva nelle parrocchie e non rimanessero invece eventi sganciati dalla vita quotidiana dei giovani. Una chiamata al rinnovamento delle parrocchie che però non è avvenuto. Pensi solo agli orari delle messe: nella stragrande maggioranza dei casi sono ancora legati a ritmi di vita agricoli, non sono certo quelli di una società postindustriale come la nostra, che richiederebbe celebrazioni serali, come quella di Saint-Germain-des-Prés a Parigi che, alle ore 20 della domenica, è piena di giovani».
 Di cosa hanno bisogno i giovani?
          «Direi che in primo luogo hanno bisogno di uno sguardo positivo sul futuro. Oggi le loro prospettive sul loro futuro sono negative: precariato, mutui che peseranno tutta una vita sui loro bilanci, poche risorse energetiche, pandemie, conflitti culturali, un'economia continuamente sull'orlo di una crisi di nervi. Tutto questo porta i giovani a concentrarsi solo sul presente, sul benessere immediato che la società offre quasi per dimenticare un futuro incerto. Questa circostanza limita la loro libertà di affidarsi al futuro per costruire il presente. Direi che vivono 'di presente' senza però proiettare il loro oggi in un futuro da costruire con la speranza tipica dei giovani».
Elettra Pepe
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