I luoghi invisibili della diversità Per una pedagogia del margine

L'Altro può essere riconosciuto diverso attraverso la nazionalità, l'appartenenza religiosa, i tratti somatici, eventuali disabilità più o meno evidenti; ma se tutti questi tratti e altri ancora possono essere riconosciuti per contrasto, esiste almeno una dimensione che cade nell'invisibilità: è quella del luogo dove abita l'Altro.

I luoghi invisibili della diversità Per una pedagogia del margine

da Quaderni Cannibali

del 24 novembre 2008

«Entrate in quello spazio. Il mio è un invito deciso. Vi scrivo, vi parlo, da un luogo ai margini, un luogo dove io sono diversa, dove vedo le cose in modo differente. Sto parlando di ciò che vedo. […] Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è un luogo di creatività e di potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Vi accoglieremo come liberatori» (Bell Hooks, «Elogio del margine»).

 

Per incontrare realmente e autenticamente l’Altro e gli Altri forse bisognerebbe – per una buona volta – smettere di parlarne, smettere di porre sempre l’accento e di ripetere quanto sia importante discutere sulla differenza. Non sono spesso le nostre parole che danno senso all’accadere degli incontri e nel medesimo istante ne bloccano la preziosa portata umana e educativa? Non sono i nostri discorsi che a volte annullano e cancellano l’Altro, prima che sia ascoltata la sua voce? Già don Milani ammoniva i pedagogisti quando scriveva che questi ultimi i ragazzi non hanno nemmeno bisogno di guardarli, tanto «li si sa tutti a mente come noi si sa le tabelline».

 

Solo avendo piena consapevolezza di tale crocevia ci è legittimo cincischiare di una pedagogia interculturale che sia critica, contro e – perché no – resistente. Altrimenti il pericolo sempre in agguato è quello di cadere nella sterilità di discorsi troppo distanti dalle vite degli Altri.

L’Altro può essere riconosciuto diverso attraverso la nazionalità, l’appartenenza religiosa, i tratti somatici, eventuali disabilità più o meno evidenti; ma se tutti questi tratti e altri ancora possono essere riconosciuti per contrasto, esiste almeno una dimensione che cade nell’invisibilità: è quella del luogo dove abita l’Altro.

 

Il luogo dell’altro

 

Partiamo da un antefatto: 27 ottobre 2005, banlieue Clichè sous-Bois a nord di Parigi. Due ragazzi – Zyed Benna, diciassette anni di origine tunisina e Bouna Traoré, quindici anni proveniente dal Mali, ma entrambi cittadini francesi a tutti gli effetti – decidono, dopo una partita a calcio con gli amici, di prendere una scorciatoia per tornare verso le rispettive case. Tale scorciatoia passa da un cantiere in costruzione; la polizia vede i ragazzi, si insospettisce e attiva tre volanti per inseguirli. I due ragazzi per sfuggire si nascondono in una cabina dell’elettricità e muoiono fulminati. Questo sarà l’evento che darà origine alla rivolta delle periferie parigine. Un giorno prima di queste tragiche morti, l’allora Ministro degli Interni francese, Nicolas Sarkozy, aveva apostrofato i giovani delle banlieues definendoli racaille, cioè «feccia».

Questa volgare categorizzazione trova la sua origine nel luogo abitato dai ragazzi: la periferia, il margine. L’abitare che da dimensione inclusiva può divenire esclusiva, invisibile e di conseguenza escludente.

 

«Abitare è umano. Gli uccelli hanno dei nidi, il bestiame ha delle stalle, i carri stanno in rimesse e le automobili in garage. Solo gli esseri umani abitano. Abitare è un arte. […] L’essere umano è il solo animale che è anche un artista e l’arte di abitare fa parte dell’arte di vivere. […] In numerose lingue vivere è sinonimo di abitare. Chiedere ‘dove vivi?’ significa chiedere qual è il luogo dove la tua esistenza quotidiana forma il mondo. Dimmi come abiti e ti dirò chi sei».1

L’abitare trascende l’opera dell’architetto, «significa essere presenti con e nelle proprie tracce», significa lasciare che la propria vicenda quotidiana iscriva «la trama della propria biografia nel paesaggio. L’arte di vivere nella sua interezza (vale a dire l’arte di amare e sognare, di soffrire e morire) rende ogni stile di vita unico».

Ma l’essere umano, il soggetto delle Periferie e del Centro, della periferia del centro e del centro della periferia, vive ancora una dimensiona abitativa? E se sì in quale modo?

Abitare nei sobborghi milanesi o abitare nel benestante centro, abitare nella Napoli bene o nel rione Sanità, abitare nei quartieri coloniali africani o in baraccopoli non sono ovviamente la medesima cosa. L’abitare è indubbiamente una condizione esistenziale del crescere, se per crescere intendiamo crescere nella vita come donne e come uomini.

 

È perciò possibile provare a indicare una rilettura di ciò che si definisce Centro e Periferia proprio partendo dalla dimensione dell’abitare, senza però voler porre agli antipodi queste due termini e realtà poiché sta sempre più sfumando un’opposizione geografica tra i due: non bisogna infatti intendere l’opposizione centro-periferia come un dato definitivo, un confine netto e segnato una volta per tutte tra aree geografiche e spazi urbani, ma come la spazializzazione di un rapporto di potere che oppone dominati e dominanti e che transita in modo imprevedibile e inafferrabile tra quartieri e strade cittadine, senza ricalcare la riduttiva rappresentazione mediatica di ciò che è centro e di ciò che è periferia. Esistono centri città che nascondono al loro interno sacche di degrado umano dove si ammassa una popolazione svantaggiata, ed esistono periferie borghesi dove è un lusso vivere. Se la separazione geografica, il limite tra ciò che è dentro e ciò che è fuori si fa sempre meno evidente, quasi una sorta di non-luogo, è altrettanto realistico e doveroso osservare che la segregazione sociale è in crescita. Se nelle nostre città questo fenomeno riesce ancora a trovare degli spazi in cui non dare fastidio o per lo meno a non essere completamente ingestibile, su scala mondiale è ormai un ritornello, che quasi non fa più effetto, l’affermare che lo scarto tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua ad aumentare.

Esistono sempre pi√π spazi dove popolazioni diverse abitano vicine, si incrociano, ma non si mischiano tra loro, non producono un vero incontro.

Gli incombenti bianchi palazzoni di Gratosoglio – quartiere della periferia a sud di Milano –, che ricordano un po’ le più famose «Vele» di Scampia e la baraccopoli di via Bovisasca, sempre a Milano, rappresentano gli effetti simbolo della modernizzazione, dove la classe operaia avrebbe vissuto con maggiori comodità e più servizi, ma a seguito della disoccupazione e dei fenomeni di mobilità sociale essi ora rappresentano il polo negativo, di disagio sociale. Chi vive a Gratosoglio, come chi vive nei ghetti africani o degli Stati Uniti, va in centro, frequenta gli spazi del centro ma forse molti rinnegano di provenire dalle periferie.

 

L’antropologo Marc Augè ben esprime questo movimento: «nel centro commerciale, nel metrò, nei locali: qui i giovani delle periferie si muovono in un flusso continuo tra i due piani della struttura, dove si trovano supermercati, negozi e merci di ogni tipo, ma solo raramente risalgono in superficie ed entrano in contatto con quella che è la città. Lo stesso paesaggio si offre alla visione globale: c’è un centro e ci sono dei paesi svantaggiati, ma in queste periferie ci sono realtà che appartengono al sistema mondiale, proprio come esistono zone di sottosviluppo in piena New York».

 

Spazi comuni

 

I giovani delle periferie hanno l’attrazione centrifuga del centro e in esso per alcuni attimi vivono, ma non lo abitano. I giovani del centro vivono nel centro, vivono il centro ma nemmeno loro lo abitano. Questo perché in entrambi i luoghi sta scomparendo uno spazio di socializzazione, uno spazio che possiamo definire anche r-esistente per il suo carattere di buco bianco in cui la diversità può autenticamente ritrovare se stessa. Spazio di socializzazione che è l’ambiente di uso comune, quello che Ivan Illich definisce commons. L’ambiente di uso comune è quella parte dell’ambiente che si trova al di fuori dei confini e delle proprietà, ma che le persone hanno tuttavia diritto di usare. Spazi dove la gente può incontrarsi. La strada è senza dubbio uno degli ambienti di uso comune essenziali. Leggendo i Vangeli stessi, gli incontri più belli, intensi e profondi avvengono sulla strada (i bambini, la donna al pozzo, i discepoli di Emmaus). Ma la privatizzazione degli usi civici, la commercializzazione dello spazio come risorsa ha prelevato buona parte dello spazio di uso comune. Il classico mercato può essere uno spazio di uso comune, non di certo il centro commerciale. Il cortile, non «il palazzone alveare», è uno spazio comune.

La strada ora non è più vivibile: o invasa dal traffico nel centro o pericolosa nella periferia. La strada non è più a portata del pedone e delle biciclette: interessante notare come i semafori, la cui funzione è di fermare, vengono sempre più rapidamente sostituiti dalle rotonde che invece tendono a velocizzare il traffico, a rendere sempre più rapida la circolazione. Tutto deve essere sempre più veloce! Paul Virilio, filosofo e urbanista, afferma che «in realtà oggi viviamo la fine della via, cioè del contatto con il suolo, la strada, il marciapiede, a beneficio di una percezione superficiale e lontana: quella di un elicottero che sorvola la città o di un’auto che passa veloce su una autostrada. Percepiamo solo a distanza, dall’alto o da lontano. In questo e altri modi i poteri applicano la dissuasione perché la gente rimanga in casa». Se la gente rimane in casa o circola blindata e rinchiusa nei suoi rassicuranti quanto ingombranti SUV, viene tranciata la possibilità della vita comunitaria, dell’incontro con le differenze che in strada si sfiorano, mi lambiscono e a volte «urtano» la mia esistenza. La vita viene ridotta a un «teatro di ombre private».

Il passaggio dello spazio urbano da uso comune a risorsa ha generato un’ulteriore diversificazione della pratica, sempre più lacerante ed evidente nel contesto urbano delle nostre città: gli usi civici non hanno bisogno di polizia, ma le risorse sì. Le risorse chiedono una protezione poliziesca, chiedono di essere difese dall’estraneo, dal diverso, dallo sconosciuto. La vita urbana è sempre più segnata da una paura onnipresente e da una ricerca spasmodica di sicurezza: «noi» sicuri nei nostri quartieri residenziali, mentre «loro» rinchiusi nei loro invisibili ghetti. Centro e Periferia stanno vivendo il loro degrado sociale: all’interno di uno spazio che dovrebbe essere condiviso aumentando lo svantaggio e l’esclusione Lo spazio si fa risorsa da sfruttare, diviene omogeneo e omologante, spazio che svuota l’abitabilità cittadina e l’abitante è perciò divenuto residente, viene alloggiato. L’antropologo Franco La Cecla scrive che «l’alloggio presuppone la fine della ‘casa’ come unità di vita e di produzione, ma anche come orizzonte simbolico in cui investire la propria rete di relazioni primarie, familiari, amicali, di solidarietà e di vicinato».

«La nostra società è la sola che cerca di trasformare ogni cittadino in un residente che deve essere alloggiato, e che pertanto viene sollevato dal dovere di quella attività sociale e comunitaria che è l’abitare, siamo di fronte all’Homo Castrensis. «Il nostro mondo è divenuto inabitabile. Paradossalmente, mentre il numero delle persone cresce, rendiamo l’ambiente sempre più inabitabile».[2]

Il 2008 è stato il primo anno nella storia dell’umanità nel quale la popolazione urbana del Pianeta ha superato in quantità e numeri la popolazione rurale. I dati che la Banca Mondiale e le Nazioni Unite prevedono per il futuro devono destare in noi attenzione: da qui a vent’anni, nel mondo, il 90% della povertà sarà urbana e il 50% dell’umanità vivrà sotto la soglia della povertà in condizioni urbane degradate.

 

Sulle soglie del margine

 

La gente in periferia scompare, vive un processo di dissoluzione identitaria. La periferia è un luogo marginale che nasconde, agli occhi perbenisti della civiltà del centro, coloro che abitano questo spazio. Karl-Markus Gauss bene esprime tale aspetto: «la caratteristica fondamentale di uno slum [ma in generale di ogni baraccopoli, favelas, barrios, agglomerato urbano informale, campo nomadi] non è la povertà o la violenza o la disoccupazione o la decadenza. La caratteristica fondamentale di uno slum è la sua invisibilità. Lo slum è lì accanto a noi, eppure non riusciamo a vederlo». Baracche costruite con materiali di scarto – lamiere, cartone, plastica – situate sotto i ponti, accanto ai binari dei treni, nelle vicinanze di un fiume, piuttosto che ex-quartieri dove una volta sorgevano fabbriche e alloggi per gli operai divengono margini di esistenze che si assottigliano verso il nulla.

 

Non si sa chi ci vive o cosa accade «dentro lì», o comunque tutto quello che si conosce è solo per sentito dire. Continua Gauss: «ci si può scandalizzare, ma non serve a niente: lo slum rimane invisibile, anche se ogni giorno gli passiamo accanto. È come se fosse delimitato da un muro immateriale, che divide un mondo dall’altro».

Se questo muro invisibile può apparire astratto, non lo è di certo nelle sue ricadute sociali e antropologiche; così come non può e non deve esimere dall’assunzione di responsabilità coloro che a livello politico e amministrativo hanno fatto delle storie d vita, di coloro che abitano ai margini, delle vuote statistiche. A livello pedagogico è necessario «spostare l’accento sugli effetti antropologici dell’esistenza delle periferie, cioè affrontare la vita nelle periferie come un’esperienza di cui gli abitanti sono i primi esperti, come una fenomenologia di cui ancora sappiamo poco, ma che ci insegna molto sugli effetti che un ambiente disumano può avere sui suoi occupanti e sulle strategie che questi possono mettere in atto per addomesticarlo e renderlo vivibile» (Franco La Cecla).

È in luoghi di Periferia che vivono all’ombra del Centro che emergono altri modi di costruire, di trattare i bisogni fondamentali, di formare gruppi sociali. Incalzati dal bisogno di trovare alternative all’egemonia del sistema globale la vita si perde per ri-trovarsi e ri-crearsi.

Entriamo in quello spazio, perché «la soluzione non potrà più venire da un’utopia che della gente non ha una visione se non a volo d’uccello e per statistiche».

Mentre scrivo, ho dinanzi a me, come in un panorama vago, innumerevoli presenze di uomini, donne e bambini che vivono al centro della periferia e alla periferia del centro. Mi interessa, ci interessa? O forse queste vicende terrene del Centro e della Periferia devono incontrarsi sulla soglia del margine, dove non ci sarà più né centro né periferia.

[1]Ivan Illich, Nello specchio del passato, Boroli Editore, Milano 2005, p. 56-57.

 

[2]Ivi, p. 61.

 

Roberto Radice

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