Dopo quattro anni e mezzo si accende una speranza di pace per la città siriana. «Dopo la croce, i cristiani vivono la resurrezione». Intervista a padre Munir El Rai.
del 24 gennaio 2017
Dopo quattro anni e mezzo si accende una speranza di pace per la città siriana. «Dopo la croce, i cristiani vivono la resurrezione». Intervista a padre Munir El Rai.
Sono raggianti e sorridenti come vincitori, mentre si fanno fotografare fra i ruderi della guerra, ma non sono soldati, né guerriglieri. Non hanno l’aria torva né espressioni di rivincita. Solo ragazzi e ragazze di diciotto-vent’anni, infagottati nelle giacche a vento e nei cappelli pesanti, felici di essere vivi e di sapere che il cielo della loro città non sarà più solcato da aerei lanciati all’attacco e attraversato da colpi di mortaio e da razzi artigianali non meno distruttivi di quelli regolari, come dimostrano gli edifici, le chiese e le moschee sventrate nell’ovest della città.
«Grazie a tutti voi che avete pregato per noi, grazie a tutti i benefattori! Buon Natale da Aleppo!», esulta una voce profonda che gareggia col vento che romba nel microfono della telecamera, e tutto il gruppo saluta l’invisibile pubblico. L’uomo attempato, l’unico del gruppo, che pronuncia queste parole è padre George Fattal, del centro giovanile salesiano. Accanto a lui padre Pierre. È la vigilia di Natale. Qualche giorno dopo un altro gruppo di giovani, guidati da un sacerdote, percorreranno le vie di Aleppo distrutta in forma di pellegrinaggio sui luoghi del dolore. Il sacerdote è padre Munir El Rai, ispettore dei salesiani in Medio Oriente, figlio di Aleppo. È tornato nella sua città la vigilia di Natale, quando si era appena conclusa l’epopea di morte che per quattro anni e mezzo aveva regnato su quella che era la capitale industriale della Siria.
Il 22 dicembre gli ultimi autobus carichi di combattenti antigovernativi e di civili che hanno preferito seguirli piuttosto che restare sul posto hanno lasciato Aleppo est diretti verso l’interno della regione dell’Idlib. Appena arrivato, padre Munir ha deciso di organizzare un pellegrinaggio dei giovani dell’oratorio salesiano nella “città proibita”, ovvero nei quartieri della città rimasti inaccessibili per quattro anni e mezzo a chi abitava a ovest. Il filmato degli auguri di Natale e varie foto scattate durante quel lungo cammino di preghiera sono stati mostrati durante un incontro al cinema teatro salesiano San Luigi di Forlì, unico appuntamento pubblico di padre Munir durante il suo recente soggiorno in Italia.
«I ragazzi e gli educatori del nostro oratorio mi dicevano: “Abbiamo vinto noi!”, ma non si riferivano all’esito militare della battaglia, parlavano di qualcosa di più profondo. “Noi siamo pochi, loro erano tanti; noi eravamo disarmati e non abbiamo fatto la guerra a nessuno, loro avevano tante armi e ci lanciavano contro razzi e bombe di mortaio; noi siamo stati educati all’amore, alla convivenza e al perdono, loro all’odio, alla violenza e alla guerra. Ma loro se ne sono dovuti andare, e noi siamo ancora qui!”. La vittoria dei cristiani di Aleppo è stata la vittoria dei “santi”, “al kaddisin” in arabo, quelli che sono rimasti qui per tutta la durata della guerra, vivendo sotto le bombe, pregando e aiutando il prossimo, educando i bambini e visitando i malati e i feriti. Loro hanno vissuto veramente il Mistero pasquale, hanno portato la croce e oggi vivono la resurrezione».
È ancora un “big game”
Raramente padre Munir tiene incontri pubblici e ancora più raramente concede interviste ai giornalisti. Questo sacerdote siriano è il primo indigeno nominato ispettore salesiano del Medio Oriente, dopo più di un secolo di ispettori tutti italiani (i salesiani sono presenti in questa parte del mondo dal 1891, e El Rai è stato nominato nel 2012). Da allora risiede a Betlemme, in Terra Santa, ma per tutti gli anni della guerra ha visitato puntualmente la Siria ed Aleppo, trascorrendo settimane sul posto, condividendo la vita difficile di chi restava lì e i rischi dei viaggi attraverso il paese: non ha mai nascosto la croce pettorale che porta sopra all’abito, anche quando a fermare l’auto ai check-point erano i ribelli.
Una volta se l’è cavata dicendo di essere sacerdote di una zona rimasta neutrale durante i combattimenti. Oggi rompe il riserbo un po’ per simpatia verso il suo interlocutore, perché il sottoscritto è il giornalista che lo ha visitato di persona un anno e mezzo fa ad Aleppo, e un po’ perché vuole che tutti capiscano che la guerra di Siria e la battaglia di Aleppo sono state e ancora sono anche una guerra e una battaglia “mediatiche”. «Quando c’è una guerra, l’informazione è sempre manipolata. Non è manipolata solo sul posto, è manipolata anche in Europa e in Occidente. Bisogna imparare a leggere fra le righe, bisogna informarsi a più fonti, farsi delle domande. La guerra di Siria è stata ed è ancora un “big game”, i problemi e i diritti dei siriani non sono mai stati la cosa che conta di più. Quando si vedono Kerry e Lavrov, cioè i ministri degli Esteri di Usa e Russia, che discutono del cessate il fuoco ad Aleppo, quando si vede la Cina che per due volte esercita il diritto di veto al Consiglio di sicurezza in votazioni riguardanti la Siria, quando a discutere e prendere le decisioni sono l’Unione Europea, i paesi del Golfo, l’Iran, la Turchia, ecc. tutti capiscono che è in corso un “big game” che si gioca sulla pelle delle persone, che c’è in gioco qualcosa di molto più grande di un cambiamento di presidente».
Per questo è importante mostrare la tragedia di Aleppo dalla prospettiva di chi viveva ad ovest per tutta la durata del conflitto. Per i media occidentali i mesi fra l’estate e il dicembre scorso sono stati i mesi dell’orrore e della vergogna, perché la comunità internazionale non prendeva alcun provvedimento contro i governativi e i loro alleati che compivano crimini di guerra bombardando i quartieri controllati dai ribelli, senza preoccuparsi degli ospedali e ambulatori che colpivano. Per gli abitanti di Aleppo ovest sono stati i mesi in cui i bombardamenti dei ribelli contro obiettivi civili – case private, chiese, attività commerciali – si sono intensificati, con la sola differenza rispetto ai governativi che le loro armi erano meno sofisticate ma non meno distruttive: bombole di gas con alette applicate sul fondo, svuotate e riempite di schegge e di esplosivo.
Mesi durante i quali da est non arrivava più nessuno: negli anni passati i quartieri a maggioranza cristiana di Azizie, Suleimanya e altre zone si sono riempiti di musulmani che abbandonavano l’est sotto controllo ribelle e cercavano riparo a ovest; ma durante la campagna di estate e di autunno pochissimi civili hanno potuto abbandonare Aleppo est, nonostante governativi e alleati russi abbiano offerto più volte “corridoi umanitari”. I ribelli li hanno trattenuti per farne i propri scudi umani, per poter mostrare foto e filmati di bambini feriti, come è poi accaduto, a scopo propagandistico. Ma questo i media occidentali non l’hanno mai spiegato, mentre contemporaneamente davano notizia del fatto che l’offensiva degli alleati contro l’Isis a Mosul incontrava il problema dei civili usati come scudi umani dai jihadisti: due pesi e due misure. E intanto gli aleppini dell’ovest mandavano in giro via Twitter e via Facebook le immagini cruente dei loro feriti e dei loro morti, disperato tentativo di riequilibrare l’informazione.
Disposti al martirio
Oggi che la battaglia di Aleppo è finita, a raccontare il presente della città distrutta ma riunificata sono i suoi stessi abitanti. «Aleppo est è disabitata, ma non è deserta: non se ne sono andati tutti. Abbiamo incontrato bambini che facevano gli ambulanti vendendo pane e biscotti, adulti che ci parlvano con cortesia: “Abbiamo vissuto nella guerra, abbiamo sofferto tantissimo, ma Dio ci ha protetto. Speriamo che ritorni la Siria!”»: un’espressione che vuole esprimere il desiderio del ritorno alla pace e alla normalità. «Ancora non si può parlare di un ritorno alla vita: acqua ed elettricità funzionano a singhiozzo, le autorità hanno appena cominciato a rimuovere le macerie e le barricate dalle vie. La gente aspetta di vedere se la tregua tiene; sono certo che gli aleppini vogliono tornare a vivere ad Aleppo, ma in condizioni di sicurezza e di vivibilità».
Per quelli che sono rimasti sempre ad Aleppo, per i “santi”, il centro giovanile salesiano è stato un punto di riferimento. «Prima della guerra le nostre attività attiravano circa 450 giovani, ma in questi ultimi anni ci frequentavano quasi mille persone, nonostante il numero dei cristiani in città si sia progressivamente ridotto a un terzo di quelli che vi risiedevano nel 2011. Questo è dipeso dal fatto che altre parrocchie hanno dovuto interrompere le attività perché erano in zone più esposte della nostra, ma anche dalla scelta pastorale che abbiamo fatto. Io ho detto subito ai miei confratelli: “Chi resta qui deve essere disposto al martirio, potrebbe accadere in qualunque momento, dunque non vi impongo l’obbedienza, siete liberi di andare o di restare. Ma noi non diventeremo mai la Croce Rossa o la Mezzaluna Rossa: chi resta qui deve continuare a servire il carisma salesiano, che è l’educazione. Prima di tutto continueremo a formare ed educare i giovani”. È per questo che siamo diventati un punto di riferimento per i giovani: insieme ad aiuti materiali, offrivamo vita comunitaria, amicizia, assistenza spirituale. Di questo tantissimi ci sono grati. “Senza di voi sarei emigrato o sarei sprofondato nella disperazione”, ha detto qualcuno».
È stata una scelta in sintonia con la storia del centro giovanile salesiano di Aleppo, la prima città siriana dove la congregazione di san Giovanni Bosco ha iniziato le sue attività nel 1948, su richiesta insistente di una benefattrice locale, Matilde Salem (di cui è aperto il processo di beatificazione e che dà il nome all’oratorio). Un gruppo di missionari italiani diedero vita a una grande scuola professionale, che fu nazionalizzata dal governo nel 1968. Che fare a quel punto? I salesiani decisero che, anche senza la scuola, sarebbero rimasti per animare l’oratorio e altre attività per i giovani. Fu una scelta lungimirante: dall’oratorio di Aleppo sono uscite circa 16 vocazioni religiose salesiane di siriani dal 1968 ad oggi, che hanno permesso di estendere l’azione salesiana ad altre località del paese, con la creazione di un grande oratorio a Damasco nel 1990 e di un centro giovanile a Kafroun nel 1991.
Restare ha voluto dire pagare un prezzo doloroso: «In Siria tutte le famiglie hanno conosciuto un lutto o una sofferenza, noi non facciamo eccezione. Uno dei nostri bambini, Jacques che aveva 11 anni, è morto per un colpo di mortaio tre anni fa mentre aspettava il pulmino per venire a catechismo. Due fratelli che frequentavano l’oratorio sono stati uccisi insieme alla madre da un razzo che ha colpito la loro casa. L’allenatrice della squadra di pallacanestro femminile è stata fulminata da un cecchino mentre tornava a casa. Ma anche contro chi voleva andarsene la sorte si è accanita: io ho perso un cugino che è annegato mentre cercava di raggiungere un’isola greca dalla Turchia, all’inizio del 2014».
Soldi, armi e lavaggio del cervello
Ma ora la speranza è ritornata, finalmente, concludiamo noi. «Per certi versi sì», risponde padre Munir. «Il prolungarsi senza fine della guerra, mentre si aprivano e si chiudevano negoziati senza costrutto, ha gettato un popolo intero nella disperazione e nello scetticismo. Ora però la liberazione di Aleppo, il cessate il fuoco e la volontà di un accordo definitivo manifestata dalle potenze regionali e dalle superpotenze ha fatto rinascere la speranza. I miei giovani tuttavia mi ripetono: “La nostra speranza è solo nel Signore”. E hanno ragione, perché non basteranno gli accordi politici per riportare la pace. Ci vorrà il perdono, ci vorrà la riconciliazione, che si possono ottenere solo a una condizione: l’educazione per cambiare le mentalità e per salvare i giovani dalla radicalizzazione. Il problema della Siria non è che la maggioranza della popolazione è musulmana sunnita e il presidente è alawita. Se il problema era quello, la rivoluzione avrebbe vinto: i sunniti sono i tre quarti della popolazione, potevano rovesciare il governo. Invece tanti di loro si sono dimostrati patriottici e leali verso il governo. Ma un certo numero in età da poter portare le armi ha aderito all’estremismo e al terrorismo. Estremisti e terroristi sono divenuti tali grazie alla propaganda, al lavaggio del cervello, ai soldi e alle armi provenienti da altri paesi. Perciò in Siria avremo la pace e la riconciliazione solo se riusciremo a vincere la sfida dell’educazione».
Rodolfo Casadei
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