Che la legge 194 – che permette l'aborto a pubbliche spese – non avesse eliminato gli aborti clandestini (calcolati in almeno ventimila l'anno) era cosa nota, anche se di questo insuccesso della legge si parla il meno possibile.
del 17 novembre 2009
Che la legge 194 – che permette l’aborto a pubbliche spese – non avesse eliminato gli aborti clandestini (calcolati in almeno ventimila l’anno) era cosa nota, anche se di questo insuccesso della legge si parla il meno possibile.
Ma che questo genere di aborti si "organizzassero" in una grande città come Milano, alle fermate degli autobus e nei meandri della metropolitana, non lo sapeva quasi nessuno. Va dunque riconosciuto a Elena Loewenthal, che lo ha raccontato due giorni fa sulla Stampa di Torino, di aver rotto il tabù dell’aborto clandestino, cosa che quasi nessuno fa sui cosiddetti giornali "laici", e di aver anche rivelato i tristi spazi urbani in cui esso viene negoziato.
Le fermate dell’autobus e i sotterranei della metrò, ad esempio, dove straniere e italiane si trovano immerse in una specie di «immenso consultorio» parallelo a quello legale, dove «si chiedono, si ottengono e si pagano gli aborti clandestini». Dove un’oscura ragnatela di personaggi intavolano trattative, forniscono indirizzi, distribuiscono «sacchetti di pillole»... «Un sistema intero che funziona a pieno regime», scrive Loewenthal.
In quei posti che Marc Augé ha definito come «non luoghi», dove nessuno ti guarda in faccia e dove nessuno ha tempo e voglia di interessarsi di nessun altro, molte donne – straniere e no – vanno a cercare una "soluzione" al loro "problema". C’è la clandestina disperata e senza mezzi, ma c’è anche la giovane italiana colta e presumibilmente ben informata, che non può permettersi di «guastarsi una carriera ben avviata». E ci sono «minorenni» per le quali l’articolista della Stampa non trova aggettivi. La loro abbandonata solitudine parla da sola, aggiungendo desolazione a desolazione.
I lettori di Avvenire già conoscono il mondo di sentimenti e di paure che venerdì è emerso anche dalle pagine del quotidiano torinese. È un mondo osservato dal punto di vista delle donne che faticano ad accettare una gravidanza. È un mondo nel quale, da decenni, si addentrano con passione e rispetto i volontari del Movimento per la vita e dei Centri di aiuto alla vita. Spesso circondati dal silenzio (o dall’ostilità) di buona parte dei mass media e dei soliti ambienti "evoluti".
E questi volontari sanno – per averlo sperimentato mille volte – che, di fronte a una maternità imprevista e non voluta, la prima causa di rifiuto del figlio da parte della donna è la sensazione terribile dell’abbandono, è il sentirsi immerse in una società dove «ognuno si fa i fatti suoi», una società in cui anche le persone più vicine – marito, partner, madre e padre, amiche e amici – ti dicono: «Devi decidere tu». Il che, magari, suona bello e giusto, ma troppo spesso vuol dire: «Arrangiati».
Questi volontari conoscono, per esperienza, i "miracoli" che accadono quando anche la madre più determinata ad abortire scopre che qualcuno le vuol dare una mano sul serio, vuol "perder tempo" a occuparsi di lei, ad ascoltarla senza stancarsi, senza scoraggiarsi mai. Guardandola in faccia, insomma, stabilendo con lei quella relazione che ci trasforma da individui in persone.
Riflettendo sul triste e solitario fenomeno dell’aborto clandestino e fai-da-te, Loewenthal trova incomprensibile il fatto che una donna italiana, istruita e matura, volendo abortire, preferisca il tetro mondo dei sotterranei della metropolitana al ricovero ospedaliero che, almeno, la sottrarrebbe agli inevitabili pericoli di natura sanitaria. Pensa che si tratti di italica, atavica diffidenza nei confronti della legalità. O di qualcosa di più profondo e oscuro, come se «l’emancipazione e il progresso non fossero riusciti ad estirpare... la sottomissione femminile ad un destino ingrato…». Ma c’è dell’altro.
E se Elena Loewenthal, che è giornalista intelligente e di fini sentimenti, volesse, ospite gradita, "scoprire" anche il mondo del volontariato pro-life, vedrebbe appunto altre cose, altre profondità del cuore. E un nucleo straordinario di umanità e di storie che a volte sembrano inventate e invece sono tutte vere. Difficili eppure calde di vita e di speranza, lontane mille miglia dalla desolazione dell’aborto in pillole spacciato nel buio della metropolitana milanese.
Gabriella Sartori
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