Un viaggio che non è soltanto un pellegrinaggio, ma un autentico percorso di riscoperta della propria vita. L'esperienza di una venticinquenne romana sul Cammino di Santiago. Avevo letto che se il Cammino di Santiago chiama bisogna rispondere immediatamente. La frase aveva un che di generico...
del 30 settembre 2009
Avevo letto che se il Cammino di Santiago chiama bisogna rispondere immediatamente. La frase aveva un che di generico, pertanto non vi avevo dato importanza fino al giorno in cui parlando con un’amica ho “sentito” che prima di pormi qualunque domanda dovevo fare lo zaino e partire.
 
Al check-in dell’aeroporto il peso dei nostri zaini superava i 10 kg l’uno e si sommava ai racconti epici di vesciche e tendiniti debilitanti, ma niente di tutto ciò sembrava minimamente scalfire l’entusiasmo di percorrere a piedi l’ultimo tratto del cammino francese. Non avevamo idea di cosa ci attendesse, sapevamo solo che avremmo attraversato la splendida regione della Galizia in undici giorni conquistando i 200 km che ci separavano dalla meta: Santiago de Compostela. Eravamo certe che sarebbe stata un’esperienza forte, ma di certo non immaginavamo di scoprire nel Cammino stesso la vera meta.
 
Ogni pellegrino arriva a Santiago prima o poi, ognuno con il suo passo, i suoi chili sulle spalle, le sue domande. Non contano i giorni né i chilometri, quanto piuttosto le esperienze verso cui ci si apre lungo la strada. Perché il cammino non lascia mai soli i suoi pellegrini. Il suo sostegno non si fa attendere e si rivela nelle forme più incredibili: dall’indicazione di un contadino se si è persa la via, al conforto di alberi da frutto dopo chilometri di aridità, dalle cure mediche di altri pellegrini di passaggio alla speranza scolpita nei loro volti. Volti raggianti di chi, come noi in quegli undici giorni di cammino, usciva ogni mattina con il buio, zaino in spalla e, con la pienezza di chi non ha bisogno d’altro, seguiva le frecce gialle fino alla tappa successiva dove un nuovo paesaggio e nuovi incontri avrebbero fatto dimenticare la fatica di una giornata.
 
Nel cammino nessun giorno è uguale al precedente. Pur nella ripetitività delle azioni, la sua bellezza sta nell’assenza di routine. Ogni giorno ha lo stesso inizio: sveglia prima dell’alba, colazione energetica, preparazione dello zaino e via, alla ricerca, spesso con l’ausilio di una torcia, delle frecce gialle disseminate lungo la strada. Ma tutto il resto è imprevedibile, e se ci si abbandona al flusso degli eventi si scopre quanto ricche possano essere le ore di una sola giornata. Quante le prove, sia fisiche che mentali, quanti i doni inattesi. Il viaggiatore si ritrova a lottare, solo o in compagnia, con i propri tabù, i propri dolori, il passato e le aspettative, sperimenta il distacco materiale e affettivo, il vuoto che lo attanaglia.
 
Da meravigliosa metafora della vita, il cammino risolleva sempre chi vi si pone con fiducia semplicemente vivendo nel presente. Presente in cui bastano un sorriso, un saluto e un «Buen camino!» strappati lungo il percorso. Ed ecco che ci si sente parte di una famiglia molto più vasta, ogni dolore fisico scivola sullo sfondo per lasciar spazio ad una volontà che è attenzione costante all’altro prima che alla strada. Attenzione ma anche totale fiducia nella provvidenza, nelle risorse sconosciute del proprio corpo che comincia a parlarci e a raccontarci di sé, nella solidarietà e nell’amore spontaneo che pervade ogni incontro. Perché nel cammino non si è mai soli e la condivisione è totale, anche per quell’assenza di schemi e maschere che lasciamo dietro di noi.
 
Essere pellegrini è svestire i propri panni per sperimentare la vera fratellanza. Ognuno ha con sé l’essenziale eppure si ha sempre qualcosa da donare e ricevere. La prima rivelazione del pellegrino è appunto il gioire dell’essenziale, che diviene visibile solo quando si comincia a guardare l’altro con occhi nuovi, più attenti e curiosi, leggendovi i bisogni e le speranze comuni ma anche e soprattutto una propria storia e un’occasione di crescita e arricchimento interiore reciproco.
 
Altra rivelazione del pellegrino è la lentezza, la scoperta di un tempo che segue i ritmi biologici, che si dilata nel presente. Si impara a non avere fretta, ad ascoltare e assecondare il proprio corpo, il solo strumento di cui si dispone, senza temerne i limiti e anzi con la voglia di scoprirli per accettarli e solo così superarli. Si impara a godere dell’attesa, a gustare il paesaggio con tutti i suoi suoni, odori e colori, le sue variazioni di luce, le sue asperità. Soprattutto si impara a non avere fretta di arrivare.
 
La meta non è Santiago, né le risposte alle domande che ognuno porta con sé. La vera meta è ogni istante che si vive, è la misura d’amore che sperimentiamo nel presente nel rapporto con l’altro. È semplicemente scoprire che è già in noi, ovunque nel cammino della vita.
E allora…
 
Buen Camino!
 
Maddalena Ionata
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