Immaginiamo che la giornalista di un diffuso settimanale si finga incinta e intenzionata a interrompere la gravidanza per verificare cosa avviene nel nostro Paese alle donne che decidono di abortire.
del 03 febbraio 2007
Immaginiamo che la giornalista di un diffuso settimanale – famoso per le inchieste realizzate con coraggiosi travestimenti, come ad esempio quello da penitente fra i confessionali... – si finga incinta e intenzionata a interrompere la gravidanza per verificare cosa avviene nel nostro Paese alle donne che decidono di abortire.
Immaginiamo che vada in un noto ospedale lombardo, e che un medico le proponga di abortire per via farmacologica, anziché per aspirazione, garantendole di agire nella piena legalità.
Immaginiamo che la donna si renda conto che il farmaco in questione è un noto antitumorale, che non è indicato come abortivo, che con quel farmaco l’intero processo abortivo si completa in media in un mese, che l’efficacia è bassa, che non potendo sapere in anticipo quando espellerà il feto probabilmente abortirà a casa, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ne sconsiglia vivamente l’uso, che il medico in questione non ha informato nessuno all’interno dell’ospedale, né tanto meno al Comitato etico, della sua iniziativa di interrompere le gravidanze con questo metodo, e che non si riesca a trovare un Paese al mondo in cui si autorizzi l’uso del farmaco come abortivo.
 
E’ facile immaginare il risultato: un’inchiesta-scandalo con i fiocchi. Titoloni sulla malasanità, sulla spregiudicatezza di certe sperimentazioni, sulla ripetuta violazione della 194: l’aborto al di fuori dell’ospedale, innanzitutto, e per di più con una procedura che non fa certo parte delle «tecniche più moderne e rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna», come richiesto dalla legge. E la descrizione di un aborto lungo, doloroso e incerto.
Scoppia il putiferio. Associazioni di donne, ordini professionali di operatori sanitari, sindacati, politici... L’opinione pubblica indignata fa sentire la sua voce: si sanzioni il disinvolto medico, e che non succeda mai più!
La storia che abbiamo appena raccontato non è del tutto immaginaria: non una giornalista, per finzione, ma 53 donne, per davvero, hanno abortito all’Ospedale Buzzi di Milano utilizzando un farmaco antitumorale, per il quale non sappiamo esistere protocolli autorizzati in nessun Paese al mondo. Il metotrexato – questo il nome della sostanza – viene somministrato con un’iniezione il primo giorno della procedura. Solitamente una settimana dopo si assumono le prostaglandine, cioè quei farmaci che inducono le contrazioni e fanno espellere l’embrione. Secondo l’Oms, dopo 15 giorni ha abortito l’83 per cento delle donne, mentre l’efficacia di un aborto sicuro deve essere notevolmente più alta, almeno superiore al 90 %, e con tempi decisamente più brevi.
 
L’Oms diffida dall’uso del metotrexato come abortivo per via della sua teratogenicità (la capacità cioè di produrre malformazioni nel feto eventualmente sopravvissuto): la procedura infatti è molto lunga, con un’elevata percentuale di fallimenti, e non mancano donne che decidono di portare avanti la gravidanza, mettendo al mondo bambini malformati. In un recente numero della rivista Contraception, interamente dedicato all’aborto chimico, H. von Hertzen e colleghi, pur sostenitori di questa modalità abortiva, sconsigliano comunque il metotrexato, anche per via della lunghezza della procedura.
Gli effetti collaterali sono gli stessi della Ru 486: nausea, vomito, diarrea, crampi e forti perdite di sangue, in quantità e durata variabile da donna a donna. Gli antidolorifici sono di routine.
Non si può conoscere in anticipo il momento in cui si abortirà, ed essendo in questi casi impensabile un ricovero di settimane, è molto probabile abortire a casa.
 
Le autorità sanitarie lombarde erano all’oscuro della sperimentazione del dottor Umberto Nicolini, il ginecologo che ha usato il metotrexato, e pare che al Buzzi nessuno si sia accorto di niente finché la cosa non finì sui giornali, i primi giorni del luglio scorso. Il 20 luglio, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il sottosegretario al ministero della Salute, Antonio Gaglione, affermò che per usare il Methotrexate per le procedure di aborto sarebbe stata necessaria una sperimentazione. Il direttore generale degli Istituti Clinici di Perfezionamento, Francesco Beretta, ai primi di agosto presentò poi un esposto alla procura della Repubblica, ipotizzando la violazione della legge 194 nel reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’Ospedale Buzzi.
Ed è a questo punto che la nostra storia immaginaria si allontana definitivamente dai fatti: nella realtà, pochi titoli indignati sui giornali, e ieri l’epilogo.
 
Il gip di Milano Enrico Manzi ha disposto l’archiviazione dell’inchiesta perché l’uso non autorizzato del farmaco Methotrexate «non presenta profili di penale rilevanza» ma costituisce «solo illecito disciplinare». In particolare è stata accolta la richiesta del pm Marco Ghezzi, che aveva osservato come «tale metodologia appare pienamente conforme alle finalità della legge 194 in quanto l’uso delle tecniche più moderne e rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna per l’interruzione di gravidanza costituisce una delle finalità della stessa legge».
Sarebbe interessante sapere con quale letteratura scientifica si possa dimostrare che l’aborto con il metotrexato, sconsigliato dalle massime autorità sanitarie mondiali e da esperti del settore, sia una tecnica più moderna e rispettosa dell’integrità fisica delle donne. Non solo: sempre secondo il pm, «non risulterebbe violato l’art. 8 della legge 194, in quanto le procedure adottate sono congegnate per favorire l’espulsione dell’embrione in ambito ospedaliero».
Peccato che la legge 194 non voglia appena «favorire» l’aborto in strutture ospedaliere – quasi che poi se non ci si riesce fa niente, e si abortisce dove si può. A noi risultava che la 194 prevedesse interruzioni volontarie di gravidanza esclusivamente in strutture sanitarie pubbliche... Nel caso del Buzzi per diverse donne l’aborto è effettivamente avvenuto al di fuori dell’ospedale.
Anche il giudice che ha archiviato l’inchiesta critica Nicolini, probabilmente perché è stato violato l’obbligo del consenso informato: «Ci si chiede quali reali informazioni siano state fornite alle pazienti e in base a quale giustificazione si sia avviata, nella sostanza, una sperimentazione con l’uso di un farmaco considerato 'in declino' dalla stessa letteratura medica».
 
Ma se non verranno adottate nemmeno misure disciplinari, d’ora in poi un qualsiasi medico potrà utilizzare le strutture degli ospedali pubblici per sperimentare farmaci abortivi senza neppure consultare il Comitato etico, purché egli li ritenga adatti, anche contro ogni evidenza scientifica. È quel che accade in India, ad esempio, dove si sperimentano aborti introducendo nell’utero acqua bollente o paste corrosive. Chiaramente ci sarebbe un precedente per poter sperimentare in totale libertà anche molti altri farmaci.
Chissà cosa pensa di tutto questo il  ministro Livia Turco.
Assuntina Morresi
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