“Il Dio della speranza, che ci riempie di ogni gioia...!”

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito...

“Il Dio della speranza, che ci riempie di ogni gioia...!”

da Teologo Borèl

del 04 novembre 2010

 

           0. Domenica scorsa mi sono concentrato esclusivamente sull’incontro di Gesù con Zaccheo e ho trascurato le altre letture che la Liturgia proponeva. Mi collego quindi alla prima lettura di domenica scorsa, tratta dal libro della Sapienza, perché mi sembra un’introduzione eccellente al tema odierno che ho voluto sintetizzare con il saluto rivolto dal Celebrante all’Assemblea all’inizio dell’Eucarestia: “Il Dio della speranza...”: sì, perché la Parola di Dio che ascolterai domenica trasuda di speranza, di fede nella vita, nel Dio dei vivi!

           Dunque la prima lettura diceva: “Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato... Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita!”

           E il salmo responsoriale ci faceva ripetere un’espressione di s. Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente!” Ma ti rendi conto? Solo l’uomo ‘vivente’ è in grado di dare gloria a Dio.

           Il messaggio di questa domenica è un ricamo di questa verità (i morti risorgono!) che fa capolino già nell’Antico Testamento.

           Pochi giorni fa abbiamo alzato lo sguardo a contemplare “tutti i Santi”, cioè tutti coloro che vivono con Dio, che sono “pari agli angeli e sono figli di Dio, dal momento che sono figli della risurrezione” (Luca 20, 36).

           Nel giorno della commemorazione dei defunti, il pensiero della morte ci ha posto tanti interrogativi che cerco di far emergere, perché sono gli stessi dei sadducei del Vangelo.

           Che ne sarà dell’uomo dopo la morte? È il problema fondamentale dell’esistenza. Se la vita presente è tutto, se non c’è speranza oltre la morte, è chiaro che è perso tutto e definitivamente.

           Non c’è progetto che possa imporsi, se tutti hanno un termine che li livella. Lo stesso progresso sembra avere uno smacco fatale e definitivo se si conclude nel nulla della morte.

           L’impegno, il lavoro, la gioia hanno un valore se con essi avviene una nostra realizzazione; ma se con la morte tutto finisce e noi non possiamo goderne, se non possiamo sederci alla mensa per cui ci siamo sacrificati per tutta la vita, tutto sembra avere un’inconsistenza radicale.

           Se il dialogo d’amore con le persone finisce per sempre, l’amore non è più il fulcro della vita dell’uomo, ma semplicemente una cosa tra le tante. È questo il problema posto dai sadducei a Gesù.

           1. Leggi per tuo conto il brano del Vangelo, di cui ora cerco di fornirti una rilettura facilitata e commentata.

           Siamo al cap. 20 del vangelo di Luca, il capitolo dello scontro di Gesù con i capi giudei, che gli rivolgono tre interrogativi, che hanno il sapore più di accusa o di tranello che di ricerca della verità.

           Eccoli: - Con quale autorità Gesù agisce- Se sia lecito pagare il tributo a Cesare- Se i morti risorgono

           Quest’ultimo viene dai sadducei. Chi sono costoro? Si tratta di un gruppo aristocratico di sacerdoti e di laici facoltosi, che prende il nome dal sacerdote Sadoc del tempo di Davide. Erano aperti alla cultura ellenista e favorevoli al potere romano; in ambito religioso sono conservatori e si attengono unicamente alla Torà di Mosé (primi 5 libri della Bibbia), per cui rifiutano la Tradizione e le dottrine più recenti, come appunto quella riguardante la risurrezione dai morti, attestata per la prima volta nel libro di Daniele (12, 2-3).

           La questione viene posta per mezzo di un caso concreto in cui viene applicata la legge del ‘levirato’ (levir significa ‘cognato’): la storia della donna e dei sette fratelli, che uno dopo l’altro l’hanno in moglie e muoiono senza lasciare discendenza. Il tutto non senza una punta di ironia! L’interrogativo posto a conclusione vuole mettere in imbarazzo Gesù, la cui posizione circa la vita futura e la risurrezione è nota. Chiedendo “di chi sarà moglie?”, i sadducei pensano di mostrare l’assurdità della dottrina che essi respingono.

           Gesù risponde illuminando il concetto di risurrezione: il matrimonio è una realtà del mondo presente. Quanti appartengono al mondo futuro “non prendono né moglie né marito”. Il matrimonio infatti, essendo ordinato alla trasmissione della vita, è legato alla condizione mortale dell’uomo. Per questo Gesù continua: “... infatti non possono più morire”. La risurrezione implica l’immortalità, come dono di Dio.

           Diventati “figli della risurrezione”, ossia partecipi di essa, sono “pari agli angeli”, in quanto non soggetti alla morte, e “figli di Dio”, elevati cioè a una condizione divina, come gli angeli stessi (e come Cristo attraverso la sua risurrezione).

           Precisato il concetto di risurrezione, contro una visione grossolana della verità, Gesù ritorna al fondamento biblico della dottrina. Anche Lui cita la Torà, e rimanda i suoi avversari a una testimonianza di Mosè: “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe...” Con questo appellativo Mosè esprime la convinzione che i patriarchi sono vivi. Sarebbe blasfemo affermare che JHAWE’ è il Dio dei morti: “non è un Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per Lui!”, ossia in forza della vita che egli loro conferisce.

           Al termine della disputa Gesù riceve i complimenti (“Maestro, hai parlato bene!”) da parte di alcuni dell’uditorio, che sono d’accordo con Lui.

            2. Quella vita che possediamo e che tanto ci affascina per la sua bellezza non finirà con la morte, ma continuerà in Dio, il Vivente, per sempre! “La vita non è tolta, ma trasformata!” sentiamo ripetere ad ogni Messa di funerale. Da subito risuona nella Chiesa dei primi anni l’annuncio della risurrezione di Gesù, come primizia e caparra della nostra. Noi siamo destinati a essere “gloria” di Dio in questa vita e per l’eternità! Dio non disprezza, non annienta nulla di quanto ha creato. Questa è la fede che fonda la nostra speranza!Don Gianni

           Ti allego due documenti bellissimi che commentano a modo loro il Dio della vita

           La storia di due gemelli che si parlavano nell’utero materno. La sorella diceva al fratello: “Io credo che vi sia una vita dopo la nascita”. Il fratello protestava violentemente: “No, no, è tutto qui, questo è un luogo oscuro e intimo e non abbiamo altro da fare che restare attaccati al cordone che ci nutre.” La sorellina insisteva: “Dev’esserci qualcosa di più che questo luogo oscuro. Dev’esserci qualcos’altro, un luogo di luce, dove c’è libertà dio muoversi”. Ma non riusciva a convincere il fratello.

           Dopo un momento di silenzio la sorella disse esitante: “Ho quacos’altro da dire e ho paura che non crederai nemmeno a questo, ma penso che ci sia una madre”. Il fratello s’infuriò: “Una madre?” gridò. “Ma di che cosa parli? Non ho mai visto una madre e nemmeno tu. Chi ti ha messo in testa questa idea? Come ti ho detto, questo posto è tutto quello che abbiamo. Perché vuoi sempre qualcosa di più? Non è un posto tanto male, dopotutto. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, accontentiamoci dunque!”

           La sorella fu ridotta al silenzio dalla risposta del fratello e per un po’ di tempo non osò dire più nulla. Ma non riusciva a liberarsi dai suoi pensieri e dato che aveva soltanto il fratello gemello con cui parlare, alla fine disse: “Non senti ogni tanto degli spasimi? Non sono piacevoli e qualche volta fanno male”. “Sì, rispose lui; che cosa c’è di particolare in questo?”. “Bene, disse la sorella, io penso che questi movimenti ci siano per preparaci a un altro luogo, molto più bello di questo, dove vedremo nostra madre faccia a faccia. Non ti sembra meraviglioso?” Il fratello non rispose. Era stanco di tutto quello sciocco parlare della sorella e sentiva che la cosa migliore da fare era semplicemente ignorarla e sperare che l’avrebbe lasciato in pace.

            Testamento spirituale di Christian de ChergéQuando si profila un ad-DioIl toccante testamento spirituale di Christian de Chergé priore della comunità trappista di Tibhirine, ucciso con altri sei monaci nel 1996.

           Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata! a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno ditale offerta? Che sapessero assodare questa morte a tante altre uguamente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno.

          In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

           Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiarano. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.

           So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia.

           È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

           Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

           Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

           Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!

           E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovar¬ci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insh’AllahAlgeri, 1° dicembre 1993 - 1° dicembre 1994 Tibhirine

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