«Dove sta di casa l'amore? Ne vorrei un po' anche per me»; «L'amore l'ho sempre considerato come una scala senza il primo gradino, dove non sono mai potuto salire. Quello scalino, l'affetto, l'ho sempre cercato: in alcuni l'ho trovato, ma mai, come lo sognavo, in una famiglia».
del 07 gennaio 2008
Credo che nessuno oggi abbia a contestare il diritto di due persone a volersi bene. «Dove sta di casa l’amore? Ne vorrei un po’ anche per me»; «L’amore l’ho sempre considerato come una scala senza il primo gradino, dove non sono mai potuto salire. Quello scalino, l’affetto, l’ho sempre cercato: in alcuni l’ho trovato, ma mai, come lo sognavo, in una famiglia».
Frasi struggenti, tenere, di «barabitt», che dicono la loro voglia di amare, d’essere amati. Eppure, oggi, questo diritto d’amore vien negato ad alcune categorie di persone: qualcuno lo nega agli handicappati; molti, troppi, a chi è colpito da AIDS: come fosse gente d’altro pianeta, quello dei «diversi». «Con la malattia che hanno, pensino a curarsi e non a metter su famiglia! »; «Per me, non sono capaci d’amore!»; «E se fanno figli? Bisogna proibirglielo per legge!»; «Non bisogna sposarli! Siete matti?».
Tutte frasi sentite personalmente quando Sara e Michele (i nomi li ho cambiati), due giovani gravemente colpiti da Aids, mi hanno chiesto di essere il «loro» prete, di sposarli. Li ho provocati: «Con la malattia che avete, perché non convivete come fanno altri?». «Noi ci vogliamo bene e vogliamo che tutti lo sappiano. Un amore nascosto non ci piace: toglierebbe gran parte della nostra gioia».
Ho deciso di andare avanti, nonostante i vari problemi. Ero stato preso dalla loro voglia di stare insieme, di volersi bene per il tempo che a loro rimaneva di vivere: «Vede, mi dice Sara, mi sono tolta dal giro proprio per Michele. Ci siamo conosciuti in ospedale, nel reparto infettivi. Mi ha aiutato».
Entrambi «vivi» per la gioia dell’altro. Poveri e randagi, degli amici (una comunità) li hanno accolti senza fare troppi problemi, con grande «ampiezza di cuore».
La festa del matrimonio è stata familiare e solenne insieme, rallegrata dai canti dei «barabitt». Sara e Michele erano felici: lei, in bianco (un abito prestato da un’amica), lui, in blu scuro. Nell’aria, l’eco di alcune frasi della Bibbia: «Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo»; «Guai a chi è solo: se cade ha nessuno che lo rialzi».
Mi veniva in mente, celebrando il matrimonio, una frase di Cesare Pavese: «Noi siamo nati per vivere sotto le ali di un altro». Ma questo è un privilegio solo dei «giusti» oppure...?
E che dire di Sara e Michele a distanza di due mesi? Michele è in carcere per un delitto commesso un anno prima. Non ne aveva mai parlato a nessuno, neppure a Sara, perché non ne aveva la consapevolezza, essendo esploso in un momento di grave astinenza. E Sara si è autodimessa dall’ospedale per essergli accanto, aiutarlo: «Adesso ha ancora più bisogno di me!». La storia d’amore continua, nonostante «le grandi acque» di questi giorni: «I giornali non hanno trattato bene Michele, la sua storia, che ora è anche la mia! Mi sto dando da fare perché possa morire fuori da San Vittore».
Non credo di aver dato un grande contributo alla soluzione del problema dell’AIDS con queste mie note. Ho solo la speranza di aver mostrato l’aspetto umano del problema, che la campagna scandalistica di certa stampa ha circondato di terrore, d’angoscia, di paura.
 La disinformazione, lo scarso rispetto alla persona di chi è coinvolto, l’epidermica caccia all’untore, la paura e la ripugnanza perfino all’incontro occasionale con i portatori di Aids, sono fattori che creano nuovi «appestati» con il campanello al piede, da evitare, da rifiutare. Di certo non ci aiutano a convivere con quella malattia.
 
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)