IL DRAMMA DELL'UMANESIMO ATEORiflessioni su un “classico” di Henri de Lubac

Per de Lubac l'uomo ha una destinazione trascendente, che è il fine dell'umanità. Questo comporta una rappresentazione della storia contraria a ogni umanesimo laicizzante. La sua fondazione antropologica è il postulato che l'uomo non è se stesso per il fatto che il suo volto è illuminato da un raggio divino...

IL DRAMMA DELL’UMANESIMO ATEORiflessioni su un “classico” di Henri de Lubac

da GxG Magazine

del 18 aprile 2007

 

Per de Lubac l’uomo ha una destinazione trascendente, che è il fine dell’umanità. Questo comporta una rappresentazione della storia contraria a ogni umanesimo laicizzante. La sua fondazione antropologica è il postulato che l’uomo non è se stesso per il fatto che il suo volto è illuminato da un raggio divino. Attraverso una meticolosità tipica della letteratura gesuitica de Lubac, risalendo alle fonti remote e decisive del problema, genera una risposta lucida e illuminante all’ormai diffuso problema dell’ateismo.

Il testo è diviso in tre parti all’interno delle quali vi sono altrettanti capitoli, che richiama immediatamente al lettore una simbologia trinitaria, cara all’apologetica classica. La prima parte sviluppa un serrato confronto soprattutto con Feuerbach e Nietzsche, ossia affronta il tema vero e proprio dell’umanesimo ateo visto nei suoi profeti tragici più rappresentativi e ricchi d’influsso. Feuerbach è visto come l’anello di congiunzione tra Marx e Hegel, ed è quindi colui che innesta per primo il dramma; anche il secondo, ossia Nietzsche, deve molto a Feuerbach tramite la mediazione di Schopenhauer e Wagner, tanto che anche per lui Dio vive è può essere soltanto nella coscienza dell’uomo. Per sbarazzarsene Nietzsche cerca di mostrare l’origine di tale idea e di far vedere come essa è riuscita a trovar posto nella coscienza, per poter così sostituire a essa una coscienza umana liberata al fine di emancipare l’uomo per elevarlo a superuomo, dopo aver ovviamente proclamato “la morte di Dio”. Per dialogare con questi profeti di sventura sceglie la figura di Kierkegaard, un filosofo che sul tema dell’ateismo si espresse così:«più idea di Dio, più io».[i] Il confronto serrato prosegue con il sacerdote di un’umanità senza Dio, ossia August Comte, padre del positivismo dell’inizio ‘900, le cui conseguenze sono per de Lubac abbastanza chiare. Esse conducono a una fondazione di una religione dell’umanità  dove alla negazione di Dio segue anche per coerenza la negazione di ogni diritto, che termina in ultimo in una totale tirannia che rifiuta all’uomo ogni libertà. Infine l’esito di Comte sarà una duplice schiavitù: da una parte quella metafisica e dall’altra quella sociale. Questo è il bilancio di una duplice negazione che non vede e non vuole vedere nell’uomo la presenza di Dio. L’ultima parte è dedicata al profeta positivo, ossia Dostoievskij, che dipinge la figura di Cristo non come un soporifero razionale e giustificatore, ma al contrario le sue tinte sono così accese da essere il grande sconvolgitore della nostra esistenza, e in un certo senso pone Dio al di fuori della crisi. Fuggire da lui è fare come hanno fatto i profeti della “morte di Dio”, ma accettare la sua sfida nel cammino della fede e della vita diventa il vero richiamo per ogni uomo assetato “del di più”. È la fede la vera speranza dell’uomo. Nel nostro lavoro analizzeremo soprattutto l’ultima parte del libro cercando di cogliere gli elementi comuni al resto dell’opera.

 

1.                              L’AUTORE E IL CONTESTO IN CUI NASCE L’OPERA

 

Henri de Lubac nacque a Cambrai, nel nord della Francia, il 20 febbraio1886. Entrato nel 1913 nella Compagnia di Gesù, venne ordinato sacerdote nel 1927. Tra il 1929 ed il 1950 insegnò Teologia Fondamentale, Dogmatica e Storia delle Religioni presso l’Istitut Catholique di Lyon. Esautorato dall’insegnamento negli anni Cinquanta, a motivo delle sue posizioni teologiche sulla questione del soprannaturale, all’inizio degli anni Sessanta, su nomina papale, ricevette l’incarico di “peritus” al Concilio Vaticano II.[ii] Henri de Lubac è uno dei più insigni teologi cattolici del Novecento, oltre che uno dei principali ispiratori del Concilio Vaticano II; con Jean Daniélou, de Lubac diresse l’importante collana intitolata “Sources chrétiennes”. Compì studio vari e approfonditi, che spaziavano dalla tradizione cristiana patristica e medievale alle filosofie non cristiane e contemporanee. Al cuore della sua riflessione sta l’attenzione per la tradizione, specialmente quella patristica: da essa egli trae i motivi ispiratori del proprio pensiero, che sono la centralità del soprannaturale, la Chiesa come mistero di unità, la Bibbia come vivente ricchezza di significati simbolici. A partire dalla sua prima opera, Cattolicismo (1937), de Lubac mette in luce la propria abilità nel far affiorare nuove dimensioni e nuovi scorci dei problemi filosofici e religiosi. Egli rifiuta, soprattutto nel saggio del 1946 sul tema della grazia (intitolato Soprannaturale), la “dottrina dei due piani” invalsa col Concilio di Trento, la quale sosteneva il carattere estrinseco dell’ambito della grazia rispetto a quello della natura. Secondo tale dottrina, la natura avrebbe un proprio ordinamento e un suo fine specifico e autonomo. Facendo valere una posizione fortemente unitaria, de Lubac recupera la prospettiva di Tommaso d’Aquino, secondo la quale è possibile parlare di naturale desiderio nell’uomo della visione beatifica. Superando con risolutezza ogni concezione dicotomica dell’essere umano e, insieme, ponendo l’accento sull’autonomia assoluta della realtà naturale, collocata non più su un piano inferiore rispetto a quello soprannaturale, de Lubac fa valere una posizione unitaria e di forte sapore tomistico. Nella pubblicazione dell’opera Il dramma dell’umanesimo ateo, del 1944, de Lubac si confronta con la problematica dell’ateismo filosofico nelle sue molteplici declinazioni: di esso, il pensatore francese accoglie alcune tesi, ma rigetta totalmente la convinzione secondo la quale l’affermazione di Dio implicherebbe necessariamente la negazione dell’uomo. In rottura con questa tesi, de Lubac guarda a Kierkegaard e a Dostoevskij per capovolgere le posizioni dell’ateismo filosofico, sostenendo a più riprese che è la negazione di Dio a produrre la negazione dell’uomo. Come prove lampanti del suo asserto, de Lubac può portare tutte le tragedie che hanno costellato il Novecento e che sono state compiute ogni qual volta l’uomo ha preteso di negare Dio e fare da sé. In opposizione con l’ateismo, è possibile secondo de Lubac mettere in luce come umanesimo e cristianesimo, lungi dall’elidersi mutuamente, siano coessenziali.

 

2.                              DOSTOEVSKIJ PROFETA

 

De Lubac definisce Dostoevskij: «un giudice del nostro tempo».[iii] Il merito dello scrittore russo è nell’aver intuito e mostrato con uno sguardo di introspezione alcuni lineamenti dell’uomo che nega Dio. Per Dostoevskij coloro che considerano il Cristo come l'ideale più alto, come il saggio maestro dell'umanità, prodigo di insegnamenti riguardanti la 'ragion pratica', uccidono il Cristo o piuttosto ne operano il travestimento. De Lubac, analizzando la figura di Dostoevskij, quasi protesta contro una certa teologia occidentale, malata di estremo razionalismo. Anche Barth assumerà un atteggiamento critico nei confronti di questa stessa teologia, puntando il dito principalmente sul pensiero teologico liberale elaborato dal protestantesimo del diciannovesimo secolo.[iv]

A partire dalle succitate responsabilità dell'occidente, de Lubac rileggendo lo scrittore russo, tenta di tracciare una genesi dell'ateismo, evidenziando così, da parte dell'uomo, un processo di impadronimento degli attributi divini tale da aprire la strada alla concezione di un Dio assolutamente lontano, estraneo e talora invadente. E' questa l'immagine di un uomo che, perduto il suo legame ontologico con Dio, è inconsapevolmente divenuto preda dei demoni (da qui il titolo del romanzo concepito da Dostoevskij come la più completa fenomenologia dell'ateismo) e che, come l'indemoniato di Gerasa, grida di fronte a Gesù: «Che c'è fra me e te, Gesù Figlio del Dio altissimo?».[v] L'uomo è, secondo Dostoevskij, innanzitutto una creatura 'antinomica',[vi] contraddittoria e irrazionale: la grandezza del cristianesimo consiste proprio nell'aver compreso a fondo questa fondamentale connotazione insieme al valore della richiesta di perdono.[vii] Ciò significa che il cristianesimo non elimina questo carattere bensì lo evidenzia, anche se ciò suscita nell'uomo un profondo senso di angoscia, le cui radici affondano nella paura della libertà. Gli ideali che lo stesso uomo si crea offrono invece l'áncora di salvezza all'abisso della libertà: è questo il 'regno della fantasia' a cui l'umanità volontariamente si sottomette. A questo proposito de Lubac esamina il problema dell'ateismo in Dostoevskij proprio a partire dalla sua articolazione in tre ideali: l'ideale dell'uomo-dio, l'ideale della 'torre di Babele' e l'ideale del 'palazzo di cristallo'.

L'ideale dell'”uomo-dio”, cioè l'ideale spirituale dell'uomo che si eleva al di sopra di ogni legge, conduce inevitabilmente al delitto; la vicenda di Raskolnikov in Delitto e castigo è da questo punto di vista esemplare: egli uccide la vecchia usuraia persuaso di aver oltrepassato i naturali limiti dell'umano, consegnando la sua persona, il suo essere 'oltre-uomo', ad un livello puramente ideale; non a caso il pentimento subentra proprio nel momento in cui Raskolnikov recupera la dimensione dell'umano, quella della vita.[viii]

L'ideale della' torre di Babele' propone di far scendere i cieli sulla terra, al fine di creare un nuovo paradiso, nato esclusivamente dalle mani dell'uomo; un paradiso materiale, fatto di benessere, felicità (utopia liberal-capitalista) e di uguaglianza (utopia socialista), ma dove sarà inevitabilmente assente la libertà. Dostoevskij stesso aveva creduto nel potere liberatorio della rivoluzione e come membro del circolo socialista di Petrasevskij era stato arrestato e condannato a morte, pena che in seguito fu commutata con quattro anni di lavori forzati. Egli non ha né interessi né affari né sentimenti né affetti personali, non ha nulla che gli appartenga, neppure il nome. Tutto in lui è sopraffatto da un esclusivo interesse, da un solo pensiero, da una sola passione: la rivoluzione. Il rivoluzionario è quindi un visionario che si affida ciecamente alla sua idea, senza curarsi di nessun altra circostanza; trovandosi sospeso tra la realtà e l'immaginazione, vive in margine alla vita viva e, non a caso si comporta come un uomo che non riesce ad accettare la propria esistenza hic et nunc. Come sottolinea de Lubac la critica di Dostoevskij non colpisce unicamente il socialismo ma attacca il fondamento stesso di ogni teoria del progresso e di ogni ipoteca sull'umanità futura; sacrificare una persona  in questo istante per il beneficio di un'astratta umanità del domani, è, per Dostoevskij, il più grande crimine che l'uomo possa compiere. L'ideale quindi, pur essendo qualcosa di astratto, risulta essere più forte e, in un certo senso più vero, della realtà.[ix] L’altra sottolineatura di de Lubac la presentiamo con le sue parole:

Questa Torre di Babele, supposto che un giorno si innalzi, che alla fine essa offra una dimora stabile, in nome di che cosa oggi mi si può costringere a seppellirmi nelle sue fondamenta? Ogni generazione vale come un’altra, e la città futura non potrebbe mai interessarmi, come invece mi interessa un Regno eterno.[x]  

 

L'ideale del 'palazzo di cristallo' si caratterizza per il suo netto rifiuto del mistero, di qualunque natura esso sia; in nome della ragione erge grandiosi palazzi le cui mura difendono gelosamente le deboli certezze conquistate dall'uomo. Coloro che regneranno in queste cittadelle saranno a capo di una moltitudine ordinata e sottomessa ma priva di libertà e di amore. L'errore del Grande Inquisitore consiste proprio nell'aver voluto oscurare l'amore e la verità di Dio, in nome del benessere e della felicità. All'uomo che si affida unicamente alle certezze comprovate dalle leggi della razionalità si oppone la verità della Rivelazione di Cristo: che non vi è libertà senza mistero. Dostoevskij si fa quindi promotore di una 'filosofia dell'evidenza' che postula una nudità recettiva, uno spazio libero da noi stessi e totalmente aperto alla grazia. Così è inutile servirsi della ragione per provare l'esistenza di Dio. 

L'ateismo si rivela quindi come il più grande fallimento umano. Raskolnikov, Stavroghin e Kirillov incarnano chiaramente il prototipo dell'uomo vinto e l'esito delle loro vicende lo testimonia; Raskolnikov uccide l'anziana signora e poi, distrutto dal pentimento, abdica definitivamente all'ideale dell'uomo-dio. Stavroghin si suicida,  le ultime parole che scriverà sono:«non s’incolpi nessuno, sono io»,[xi] e il suo, prima di essere una violenza materiale, è il suicidio spirituale dell'essere che si rifiuta all'Essere; anche Kirillov si uccide ma il suo gesto non è dettato dalla disperazione bensì dal profondo convincimento di essere il protagonista e l'iniziatore di una nuova era nella storia dell'umanità. Kirillov è infatti, in un certo senso, il teorico dell'umanesimo ateo, cioè di quel movimento di idee che, mosso da una sincera filantropia, si prodiga per salvare l'uomo dai miraggi della fede. A tale scopo Kirillov e il Grande Inquisitore dimostrano di essere disposti a tutto, perfino ad autosacrificarsi. E' infatti l'idea di una possibile vittoria sul male estremo a spingere Kirillov nelle braccia della morte; alla fine il suo è un martirio inutile perché solo Gesù Cristo è risorto dai morti, con la Sua morte ha calpestato la morte, donando la vita ai giacenti nei sepolcri. Secondo Dostoevskij dunque l'ateismo, prima ancora di essere un'offesa a Dio, è un crimine contro la vita. L'uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio per cui non tutto è lecito; egli non può uccidere un suo simile senza commettere un suicidio spirituale e procedere così alla propria disumanizzazione.

La fede di Dostoevskij affonda le sue radici nella teologia dei Padri e degli antichi; egli infatti elabora la sua antropologia a partire dalla dottrina dell'imago Dei.[xii] Questa dottrina afferma che, nonostante la Caduta, l'immagine di Dio nell'uomo non è andata del tutto perduta ma che piuttosto ha subito un oscuramento parziale: la struttura interna della natura è ancora intatta, ed è pronta ad essere reintegrata attraverso l'azione salvifica dei sacramenti. Il destino dell'uomo che si allontana da Dio è quindi segnato dalla condanna a vivere un' esistenza sdoppiata; l'integrità della persona umana va in frantumi producendo così la dispersione dell' essere; non a caso Raskolnikov deriva da raskol che significa 'scisma'.[xiii] L'uomo che si professa ateo è vittima di un autoinganno; non è infatti possibile sopprimere completamente il bisogno di Dio poiché l'urgenza di adorare è insita nella natura umana, l'uomo è un essere «teotropo»[xiv] e il pensiero di Dio lo tormenta. 

Due sono le vie che all'uomo è concesso di percorrere finchè è in vita: la prima, quella stretta, porta alla salvezza e alla vita eterna poiché essa è la via tracciata da Dio che si fa uomo per amore dell'uomo; la seconda, quella larga e spaziosa, conduce alla morte e alla perdizione perché essa segue l'errore adamitico dell'uomo che si fa dio. L'uomo che sceglie di incamminarsi lungo la strada spaziosa, seppure convinto di raggiungere una meta (e quale altissima meta!) approda al 'nulla', cioè al male, il cui estremo confine non è altro che la morte. Il male infatti è nulla e come tale è 'una cosa diversa dall'essere, un'alterità metafisica, una escrescenza parassitaria' che dell'essere porta soltanto la maschera e recita la parodia del bene; il male è privo di realtà e come tale vive di sogni, di congetture, di teorie, di promesse e di menzogne. L'essere, cioè il bene, ha invece un volto, l'icona vivente di Cristo che nel creato è ovunque presente: l'essenza dell'ateismo è ciò che nega questa stessa presenza. Tuttavia la presenza del male nel mondo implica la possibilità di una scelta libera da parte dell'uomo; ma questa stessa libertà, pur rappresentando il più grande gesto di amore operato da Dio, suscita nell'uomo un profondo senso di angoscia a cui egli può sottrarsi a patto di rinunciare per sempre alla libertà; con ciò Dostoevskij non si limita unicamente a descrivere il fenomeno, ma cerca di interpretarne le cause. Inizialmente la libertà si rivela in forma di dubbio, di contraddizione, di caotica irrazionalità; tutto questo conduce ad uno stato di sofferenza indicibile a cui l'uomo si ribella allontanando da sé la religione, in cui vede trasfigurato l'elemento irrazionale, convinto che la propria volontà valga più della libertà di Dio; ma ponendosi al di fuori della grazia divina si consegna automaticamente alla legge del fato e resta disarmato di fronte all'irrazionalità,inizialmente tanto combattuta ,del proprio destino. Ma se l'uomo respinge la presenza del male nel mondo, il problema del male resta insoluto e con esso anche quello di Dio: l'esistenza del male è infatti la prova dell'esistenza di Dio. 'Se il mondo fosse esclusivamente buono e giusto, allora Dio non sarebbe più necessario, allora il mondo sarebbe dio. Dio esiste perché esiste il male. Ciò significa che Dio esiste, in quanto esiste la libertà'. Senza questa libertà non potrebbe esistere neanche il bene dato che l'imperativo del “bene morale”, staccato dal trascendente per il fatto di essere autonomo, fallisce per impotenza fondamentale; se Rousseau avesse ragione e se davvero fosse possibile dimostrare l'esistenza del 'bene naturale', il peccatore resterebbe privo dell'opportunità della redenzione e l'uomo, in definitiva, non sarebbe libero. Premesso che ogni morale che possa dirsi tale deve obbligatoriamente fondarsi sull'imperativo dell'amore, l'ipotesi di un'etica positiva al di fuori del cristianesimo risulta, per Dostoevskij, inattuabile, e ciò si spiega col fatto che amare il prossimo come se stesso diviene impossibile, a causa della legge della conservazione dell'io, se non si possiede la fede nella vita eterna.

Orbene, nella Leggenda del Grande Inquisitore, il tema della libertà si rivela pienamente. In questo testo Dostoevskij raggiunge la vetta più alta del suo pensiero teologico. Egli immagina l'avvento di una nuova discesa di Cristo nel mondo; il racconto è ambientato nella Spagna del sedicesimo secolo nell'età dei roghi della Santa Inquisizione. Cristo rivela la propria identità operando un miracolo sul cadavere, ancora recente, di una bambina del paese, ma l'entusiasmo della folla è presto spento dall'intervento del Grande Inquisitore che ordina l'arresto di Gesù; nella prigione ha poi inizio il dialogo tra Cristo e quello che, a ragione potrebbe essere considerato una prefigurazione dell'Anticristo.

La colpa del Grande Inquisitore consiste nell'aver preferito il proprio progetto, la propria visione di un'umanità in catene, al disegno della volontà divina. Le modalità di cui il Grande Inquisitore dispone per la realizzazione dell'ottenebramento della libertà nell'uomo, sono essenzialmente tre: il miracolo, il mistero, il potere dell'autorità. Sia ben chiaro Dostoevskij non rifiuta il miracolo o il mistero in sé, bensì respinge la tentazione di farne strumenti di propaganda della conversione dei cuori; prima di tutto viene la fede e la fede è un atto libero a cui nessuna costrizione o suggestione può essere preposta. Il dominio che il Grande Inquisitore esercita sulle coscienze però è tale da cancellare il desiderio della libertà, sottoponendo così all'uomo il dilemma della scelta tra libertà e felicità. Ma la felicità di cui parla il Grande Inquisitore corrisponde ad uno stato di alienazione dello spirito, di imbarbarimento delle coscienze perpetuato ad opera di un imperante eudemonismo che si prefigge come scopo la soppressione di un qualsiasi aspetto tragico dalla vita dell'uomo, rendendolo così indifferente a tutto. Nella società immaginata dal Grande inquisitore milioni di esseri saranno felici, escluso quei pochi , che dai vertici del potere, saranno a conoscenza della reale destinazione di un tale mondo: il nulla. La critica alla modernità si fa qui molto serrata; a torto qualcuno ha creduto di vedere nella figura dell'Inquisitore l'immagine della Chiesa romana; in realtà Dostoevskij ha preso a modello la Roma papale più per condannare un'idea, l'idea di un'unificazione forzata che storicamente si è espressa in due grandi ideali: l'ideale totalitario nazionalfascista e l'ideale utopico-dittatoriale socialista. Il genio di Dostoevskij si rivela proprio in questa sorprendente capacità di profetizzare un secolo di storia futura a partire da un'approfondita riflessione sull'uomo; egli non solo anticipa l'avvento del comunismo in Russia e il trionfo del capitalismo in occidente ma avverte anche tutta la pericolosità insita nelle conseguenze dell'instaurarsi di una società di massa che lo scrittore russo, con profondo disprezzo, chiama il 'grande formicaio' sociale.

Oltre a questo, nella Leggenda si chiarisce la posizione di Dostoevskij riguardo ai rapporti tra libertà, grazia, fede e verità. Senza libertà, intesa come dono dato all'uomo al momento della Creazione, non vi potrebbe essere fede, essendo questa la conferma alla libertà concessa. Così la grazia è l'appello che Dio fa a ciascun uomo; e non potrebbe essere altrimenti, a meno che non si voglia interpretare questo appello come costrizione esercitata da un dio tiranno o come una forza sovrannaturale e cieca. Ma il cristiano sa che Dio, per noi, è Padre e che il mistero della libertà dell'uomo è tutto racchiuso nelle parole del Pater Noster, in cui l'uomo liberamente si rimette alla volontà di Dio, non per spirito di sottomissione, ché il Padre non è un despota, nè perché considera se stesso impotente, dal momento che il Padre non rappresenta l'ineluttabile destino. Egli invece sa che solo il Padre può compiere per lui la massima libertà e cioè sottrarre l'intera sua persona dal potere della morte, donandogli vita eterna. Il destino dell'uomo è comunque un destino di libertà anche nel caso in cui la libertà si muti in schiavitù e ciò si verifica ogni volta che 'l'uomo, nell'impeto della sua libertà non vuol riconoscere nulla di più alto dell'uomo'. Perciò, quando la libertà si svuota del suo contenuto di amore in Cristo, si rovescia nel suo esatto opposto: in una forma di ostinato egoismo. Al contrario il principio ispiratore della libertà trova fondamento nell'Incarnazione di Cristo, intesa come patto di amore stabilito da Dio con la Sua creatura; per l'uomo infatti il segno della propria libertà sta nel fatto che non è tenuto a rispettare questo sodalizio.

Il grandissimo merito che de Lubac riconosce a Dostoevskij consiste nell'aver scorto nel processo di desacralizzazione del mondo il segno di un progressivo distacco da una società, e quindi da una mentalità, di matrice arcaico-religiosa in direzione di un passaggio ad un tipo di società moderna, caratterizzata, come l'odierna, da uno spirito laicista. A dimostrazione dell'acutezza del pensiero dostoevskijano, possiamo aggiungere che, attribuendo importanza al processo di desacralizzazione del mondo, egli comprese quali gravi conseguenze tale processo avrebbe portato di lì a poco; basti pensare che l'avvento del comunismo in Russia fu, senza dubbio, facilitato ed avvicinato nel tempo proprio dal verificarsi troppo repentino del suddetto passaggio ad una società moderna.

Tutta l’opera dello scrittore russo è un canto di speranza. De Lubac sostiene:

È una verità chè provoca lo scandalo. Tuttavia se egli persegue nell’uomo ogni tentativo di fondare quaggiù la vita eterna, non è per piegarlo sotto una sorte miserabile, ma è per tiralo fuori da una via senza uscita. Egli è il profeta dell’unità, che suppone la rottura; il profeta della risurrezione che suppone il passaggio attraverso la morte.[xv]      

 

3.                              CONCLUSIONE

 

Il dramma dell'umanesimo ateo, di Henri de Lubac, costituisce sicuramente un classico, già, ma si presenta come un ottimo ausilio per comprendere, attraverso una riflessione critica ed adeguata, quel tentativo di umanesimo ateo che l'Autore pone alla radice delle principali correnti di pensiero degli ultimi secoli (fino alla sua contemporaneità). Umanesimo secondo il quale è possibile e doveroso per l'uomo, arrivato ormai ad un certo livello del suo percorso intellettuale, costruire una società senza Dio, e in un certo senso contro la tradizione cristiana. Certamente, come mette in luce anche Franca D’Agostini nel suo recente Breve storia della filosofia del Novecento, ultimamente, dopo la caduta dei secolarismi del '900, si assiste ad una riscoperta della dimensione trascendente;[xvi] tuttavia questo non toglie che nella mentalità comune permangano ancora le conseguenze di quell'impostazione atea propria dell'umanesimo che ha caratterizzato, per citare quelle correnti di pensiero che vengono prese in considerazione da de Lubac, il pensiero positivista, quello marxista e quello nietzschiano.

Umanesimo positivista, umanesimo marxista, umanesimo nietzschiano: molto più che un ateismo propriamente detto, la negazione che sta alla base di ciascuno di essi, è un antiteismo e più precisamente un anticristianesimo. Per quanto opposti siano tra loro, i mutui contatti, latenti o manifesti, sono numerosi; e come hanno un fondamento comune nel rigettare Dio, convengono pure in risultati analoghi, il principale dei quali è la distruzione della persona umana.[xvii]

 

[i] S. Kierkegaard, La malattia morale, in Opere, Sansoni, Milano 1993, pag. 682.

[ii] Cfr. I. Morali, La salvezza dei non cristiani. L’influsso di Henri de Lubac sulla dottrina del Vaticano II , Emi, Città di Castello (PG) 1999, pagg. 91-100.

[iii] H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1996, pag. 253.

[iv] Cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, pagg. 19-29.

[v] Mc 5,7.

[vi] Cfr. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, op. cit., pagg. 234-235.

[vii] Cfr. S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Bari 1984, pagg. 150-156.

[viii] Cfr. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, op. cit., pagg. 253-259.

[ix] Cfr. Ibi, pagg. 259-268.

[x] Ibi, pag. 266.

[xi] F. Dostoevskij, I demoni, Einaudi, Torino 1994, pag. 658.

[xii] Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2002, pagg. 69-86.

[xiii] Cfr. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, op. cit., pagg. 304-311.

[xiv] Ibi, pag. 276.  

[xv] Ibi, pag. 311.

[xvi] Cfr. F. D’Agostini, Breve storia della filosofia del Novecento. L’anomalia paradigmatica, Einaudi, Torino 1999, pagg. 278-280.    

[xvii] H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, op. cit., pagg. 7-8.

Vittorio Castagna

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