Di fronte all'affatsellarsi di immagini, cronache e commeti orrorifici sugli ultmievanti di cronaca di cui ilpaese di Eraba è stato teatro, due riflessioni ci aiutano ad andare oltre il presunto orrore immediato
del 14 gennaio 2007
Il fascino discreto dell'orrore
di Antonio Scurati       
 
Ci risiamo: è di nuovo tempo di orrori, è di nuovo tempo di saldi. In questo primaverile gennaio la nostra vita trascorre placidamente tra le frenesie diurne dello shopping e i brividi notturni di sgozzamenti mediatici. Di giorno mariniamo l'ufficio per correre ad accaparrarci un pulloverino di cachemire a prezzi di liquidazione, la sera ci precipitiamo davanti alla tv a vedere Bruno Vespa che, puntando una bacchetta da meteorologo sulle vignette della strage di Erba, torna a bamboleggiare con l'orrore. Le due cose, per quanto ci disturbi ammetterlo, sono collegate. Lo shopping compulsivo e il consumo di oscenità mediatiche sono i due poli di oscillazione di una vita, la nostra, che, come scrisse Susan Sontag già quarant'anni or sono, pendola di continuo tra due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente contrapposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile.
 
 La vita moderna ci fornisce innumerevoli opportunità per guardare a distanza il dolore degli altri ma, ammoniva Sontag, si possono fare molti usi diversi di queste opportunità. L'immagine di una medesima atrocità può suscitare reazioni opposte, indignazione, giubilo, ripulsa, attrazione, perfino la catarsi tragica che sublima le nostre passioni di pietà e terrore. O anche nessuna reazione. L'immagine dell'orrore che punta tutto sui valori spettacolari a discapito di quelli informativi (il caso di Erba è poverissimo di valore informativo in quanto crimine di scarsa rilevanza sociale), non genera emozioni catartiche di pietà e terrore ma di compiaciuta eccitazione morbosa. L'antica tragedia greca raccontava di delitti efferati ma, al fine di suscitare nel pubblico l'identificazione con i tratti universalmente umani dei suoi sciagurati personaggi, e dunque la pietà e il terrore, si proibiva di rappresentare sulla scena l'atto stesso della violenza omicida. Al contrario, il pubblico odierno cerca proprio l'osceno. Chiediamoci: quanti di noi si sono veramente terrorizzati e commossi (le due cose assieme) vedendo la minuziosa ricostruzione visuale della strage di Erba? La verità, ci ripugna ammetterlo, è che traiamo piacere da questi spettacoli. Una verità ovvia e inammissibile. La verità, come scrive J. G. Ballard, nel suo ultimo romanzo, Il regno a venire, è che «i quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l'arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione». La verità è che il nostro benessere filtrato dalla vendita di automobili, elettrodomestici e pacchetti vacanze ci ha viziati, che «siamo cittadini di centri commerciali, dei porticcioli, di Internet e della tv via cavo», che quando è il consumismo a darci la misura dei nostri valori le chiese si svuotano, la politica si riduce a caos e la democrazia all'erogazione di un servizio pubblico come il gas e la luce, la verità è che tutto questo confort ci piace ma dopo una vita di shopping ci si annoia, ci si sente vacui. E allora ci si scopre a provare un inconfessabile compiacimento per il crimine, a eccitarsi per il delitto come per «una delle poche cose che può ridare energia alle nostre vite». L'anchorman della nostra falsa primavera, con la sua bacchetta da meteorologo puntata sull'orrore, al pari dell'imbonitore televisivo del romanzo di Ballard, è «l'uomo senza un messaggio che ha trovato il suo deserto». Il suo deserto siamo noi.
 
 
 
Perdonare? Meglio il silenzio
di Mina
 
Meglio restare muti sul ciglio dell’abisso del male. Muti. Senza l’obbligo di schermirsi, né tanto meno di rispondere, di fronte ai pescecani che, nello spasimo fervoroso di documentare ogni minima increspatura della fronte o incrinatura della voce, ci incalzassero fin sulla porta di casa per chiedere: «Ma lei perdona?». A chi dovremmo confidare i moti più intimi e privati del nostro cuore? A chi ci vorrebbe trasformare in un fotogramma compassionevole, edulcorato e consolatorio, all’interno di una trama da film dell’orrore? E se invece volessimo scegliere l’atteggiamento della iena che rimugina vendetta, verremmo ugualmente collocati nella sceneggiatura, ma nella parte opposta. Come in un film di guardie e ladri, come nella semplificazione di chi riduce tutto allo schema dei buoni e dei cattivi.
 
Meglio stare in silenzio. E come unico compagno, il dolore. Il dramma che è solo e soltanto nostro. Senza concedere al carnefice neanche l’onore del nostro odio. Tagliare tutto, ogni considerazione, ogni minimo segno di rapporto con chi ci vuole trascinare nel suo abisso. Scegliere l’indifferenza come forma di totale distacco, ma soprattutto come difesa del nostro spazio che non deve essere contaminato dalla seppur minima presenza, fosse anche quella del ricordo non rancoroso, della belva che ci ha fatto del male. Dicono che ci voglia coraggio per perdonare. Forse però ne occorre di più per restare immobili nella propria volontà di restare uomini, senza concedere nulla a chi uomo non dimostra di esserlo. Ne occorre di più per contrastare la più che spiegabile tentazione di farsi giustizia da soli.
 
Meglio restare nel silenzio, senza essere raggiunti dagli schiamazzi televisivi. Quando il sangue gronda, si slegano le gabbie degli psicanalisti e degli esperti di «nera» e si dà inizio al nuovo gran ballo sciamanico intorno al copione, introdotto dall’ovvia amenità secondo cui «a volte la realtà supera la fantasia». Tutto viene ridotto all’hic et nunc, tutto deve essere analizzato adesso. Anche l’odio o il perdono devono essere proclamati ai quattro venti. Ora, subito. Ma esistono percorsi interiori che sono lunghi come la vita. E soprattutto esistono fatti più grandi, circostanze più misteriose. Come la morte. Meglio stare soli e in silenzio, a ripensare alle parole di Rosaria Schifani, moglie di un agente della scorta di Falcone. «Uomini della mafia, io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare». Una pausa. Poi l’imprevedibile. O il realistico: «Loro non cambiano, non vogliono cambiare».
Antonio Scurati, Mina
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