Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo, e l'epifania del volto coincide con questi due momenti. O l'uguaglianza si produce là dove l'Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità; o l'uguaglianza non è che un'idea astratta e una parola”.
del 31 marzo 2010
          Le culture sono sempre state una sfida al vangelo e all’annuncio del messaggio cristiano. Il cristiano non è spaventato dalla differenza culturale dice san paolo “mi sono fatto tutto a tutti” (1Cor 9,22) e cioè a tutti non solo ha annunciato il vangelo, ma lo ha inserito all’interno di una cultura specifica. Spesso il vangelo e l’annuncio si sono trovato, ed oggi ancora di più, di fronte alla sfida di una presenza in contemporanea di più culture e non solo in luoghi normalmente indicati come luoghi di missione ad gentes.
          La presenza di culture diverse apre il vangelo alla sfida dell’intercultura, anzi il vangelo accoglie questa sfida proponendo la fraternità, l’unità che non appiattisce le diversità. C’è un elemento di svolta che libera dal pericolo della radicalizzazione delle identità e che diventa la chiave della fraternità: la relazione. In questo film troviamo che l’unico spazio di riconoscimento è il volto, lo sguardo che rivela l’identità profonda della persona umana e che diventa strada possibile per la soluzione non violenta dei conflitti. L’uomo impara questo stile relazionale da Dio: “Il povero, lo straniero si presenta come eguale. (...)
          La sua uguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo, così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da Altri.(...) Egli si unisce a me. (...)Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione di immagini o di segni, ma grazie alla sola espressione del volto. (...)Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinvìano allo stesso conio che le ha battute. (...)La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà.(...)
          Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce là dove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità; o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola”.
(E. Lévinas, Totalità e infinito, trad. di A. dell’Asta, Jaca Book, Milano, 1980, p. 217-219)
          1. “La guerra dei limoni”, “Riusciranno i limoni a fermare il ministro della Difesa?”. E’ la stampa bellezza, assetata di titoli accattivanti ma qualche volta utile alla causa. Siamo nella finzione di un film, Il giardino dei limoni, e una giornalista curiosa e poco ossequiosa dei poteri forti (che pure frequenta) lancia il caso. E tutti le vanno dietro. Arriva la solidarietà della solita Svezia, perché di diritti negati si tratta. La vittima molto combattiva è Salma, una vedova palestinese (la magnetica Hiam Abbass): ha tutti i figli via e vive da sola in un villaggio della Cisgiordania, prendendosi cura di un bellissimo limoneto, modesto lascito del padre (compreso un operaio che lavora per la famiglia da 50 anni).
          Caso vuole che il ministro della Difesa israeliano (Doron Tavory) si trasferisce con la moglie in una villetta che costeggia il terreno: arrivano esercito e servizi segreti, recinzioni di metallo e cecchini. Ma non basta: il limoneto guarda “minaccioso” la villa del ministro, dice l’intelligence, bisogna raderlo al suolo. Beh, i palestinesi sono abituati anche a peggio: Israele requisisce loro il terreno per costruire le carceri in cui ce li ficcheranno, ruba spazio sul confine, in una regione dove si sta molto stretti e quindi si bada anche ai centimetri, per costruire il muro divisorio tra due popoli. Che poi è un recinto per le bestie. Almeno, in questo modo vengono trattati i palestinesi, che devono subirlo rimettendoci pure la terra. Insomma fatalismo insegna che Israele, governo ed esercito, non sono abituati a fare passi indietro.
                    Avranno i loro fondati timori di essere sempre sotto attacco e rispondono con la mano pesantissima. Risultato: la vedova si facesse da parte. Invece Salma si rivolge ad un giovane avvocato (Ali Suliman), che dall’apparenza non avresti detto capace di arrivare fino alla Corte suprema di Israele. Non vi diciamo come finisce. Però la caparbietà con cui Salma protegge un luogo fisico e dei ricordi, in una zona dove ogni pezzetto di terra segna già un confine, fa esplodere le contraddizioni pure nella famiglia del ministro. Possibile che la politica si debba mostrare così forte e sicura solo nelle dichiarazioni ufficiali e nei talk televisivi e non sappia mediare, comprendere, proporre? Ancora una volta tre donne – la vedova, la giornalista, la moglie del ministro (Rona Lipaz-Michael) – marcheranno la differenza. Il buon senso è femmina.
          Produzione israeliana, tedesca e francese, il film ha preso il Premio del pubblico a Berlino. Insomma Eran Riklis, dopo il caso de La sposa siriana, che l’ha fatto apprezzare finalmente fuori da Israele (dove lui da anni è un nome), confeziona un altro racconto popolare e poetico, ordinato nell’esposizione, segnato dal volto magnetico di Hiam Abbass, una delle attrici arabo-israeliane che sta diventando musa del cinema indipendente pure occidentale. Era il vero perno del film precedente di Riklis, ma l’abbiamo vista anche in Paradise Now di Hany Abu Assad, Disimpegno di Amos Gitai e L’ospite inatteso appena uscito in sala. In Italia esce per gli indipendenti della Teodora di Vieri Razzini e Cesare Petrillo. Quest’ultimo è finito nudo su un numero speciale del Manifesto sperando di fare cosa buona (magari “erigere” le vendite). Non vorremmo che distributori meritevoli come loro finiscano in mutande, ma nel suo caso (solo per la foto) sarebbe auspicabile.
          2. In un tempo così amaro per la pace tra Israele e Palestina, per la pace nella striscia di Gaza, è un dovere per tutti noi fare riflessioni ed approfondimenti su quanto sta accadendo. Il cinema nella sua funzione di “ambasciatore” della nostra storia ci viene incontro offrendoci un film come Il giardino dei limoni. Uscito in Italia alla vigilia di questo nuovo e secolare conflitto offre una visione intima della pace. Ci racconta di come la pace sia fatta, nella striscia di Gaza, di saccheggio e usurpazione. Di difesa di privilegi e di assurdità propinate ad un popolo costretto a subire in tutte le sue forme l’oppressione e l’invasione di una potenza occidentale. Israele è a tutti gli effetti una potenza occidentale, per tutto ciò che rappresenta e per tutto ciò che mette in opera senza preoccuparsi dei pareri della sua popolazione, dell’Onu, degli altri Stati. Senza rispettare le leggi del diritto internazionale, partorite faticosamente dopo conflitti mondiali.
          Senza lasciarsi scalfire dalle più umane regole, se nella guerra possono esserci regole, che difendono i più elementari diritti. Il giardino dei limoni è un esempio di come la guerra non interessi ai popoli, ma ai politici, di come possa nascere un conflitto da un insignificante giardino di limoni, se quello diventa il simbolo di controllo e gestione del territorio, al di là della predica sulla sicurezza del paese. Gli unici che attentano alla sicurezza del proprio paese sono quelli che guerreggiano per difenderla. E le donne protagoniste di questo film dimostrano quanto siano lontane nella propria storia dai “signori” che si prefiggono di difenderle. Il film racconta di un rapporto “a distanza” tra una donna palestinese e una donna israeliana, vicine di casa, innamorate dello stesso giardino che esiste da secoli, ma che d’improvviso, per la scintilla di follia di uno, diviene oggetto di sicurezza nazionale, paradigma di un conflitto insanabile perché voluto, desiderato, nutrito giorno dopo giorno.
          Nel film le due potenze si contrappongono senza preoccuparsi delle conseguenze o del senso di quanto facciano. In realtà, il senso di tutto è racchiuso ancora una volta nell’orgoglio e nella difesa di pochi e squallidi interessi, fatti di tradimento, orgoglio e ignoranza. Queste due donne vivranno e si scontreranno, ognuna a modo proprio, con questi demoni. Li vedranno piombare dal nulla nella propria vita e alla fine sceglieranno, non senza conseguenze, qual è la loro via di coerenza. Il tutto mentre la “politica” e il sopruso continuano ad agire indisturbati nell’epoca di “maggiore democrazia” che il mondo abbia conosciuto. Guardiamo questo film e riflettiamo su quanto ogni nostra storia sia lontana dalla striscia di Gaza. Questo intervento doveva accarezzare le vostre menti per parlarvi di un film che avete già visto o che vedrete, per onestà chi vi scrive, non se la sente di solleticare il vostro intelletto, ma piuttosto di condividere con il vostro stomaco quanto sta accadendo e quanto, in questo punto della nostra storia, un film così delicato come Il giardino dei limoni, possa diventare prorompente nella nostra voglia di riflettere e guardare alla verità. Nonostante gli sforzi della stampa nazionale per trasformare le nostre riflessioni in buonismo da due soldi, con contorno di pietà.  
padre Renato Colizzi, Annalisa Picardi
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