È vero: la conflittualità e l'antagonismo relazionali si possono tradurre in violenza, ovvero prevaricazione, imposizione, lesione della libertà altrui, mancanza di reciprocità. Ma anche in un'occasione unica di confronto costruttivo, emancipazione dalla crisi e crescita, sia individuale che relazionale.
del 10 gennaio 2011
 
           L' idea che nella società, nei gruppi sociali e tra gli individui esista e persista un contrasto di fondo, per taluni risolvibile, per altri irrisolvibile, per taluni disfunzionale, per altri funzionale, è un tema ricorrente nella storia del pensiero filosofico e politico dell'Occidente.              Recente, invece, l'interesse da parte della psicologia dell'età evolutiva rispetto ai conflitti tra i bambini. Nella storia della pedagogia, afferma infatti Daniele Novara - autore del volume «Litigare per crescere. Proposte per la prima infanzia» - «non esiste una riflessione sui litigi e sulla conflittualità infantile che superi il preconcetto che li considera errori, carenze e mancanze». Insomma, il conflitto tra i piccoli è stato lungamente considerato un incidente di percorso nel cammino educativo.           Eppure il termine «conflitto» deriva da un lato dall'etimologia latina del verbo fligo, fligere (urtare, percuotere, atterrare), con una valenza dunque negativa, ma dall'altro dal suffisso cum che indica una dimensione comune, «gruppale», di compartecipazione, con un'accezione, dunque, positiva. Mentre le cause del conflitto sono fattori dissocianti (interessi contrapposti, divergenze, antagonismi, odio, frustrazione), il conflitto in sé è un modo per eliminare proprio quei fattori negativi, allentare la tensione, e arrivare ad una forma di unità.           Il conflitto può dunque avere una funzione positiva per la sopravvivenza del gruppo e della società nel suo complesso ed è questa la tesi sostenuta da Novara: il litigio, anche quello che avviene tra bambini, è da considerarsi «come occasione per apprendere nuove competenze e garantire al gruppo una maggiore coesione». Il conflitto che insorge tra bambini - ammonisce l'autore - non è dunque una colpa che va espiata con l'ausilio di un adulto-giudice, ma è piuttosto una relazione che va districata, con l'intervento neutrale di un educatore che fornisce gli strumenti per narrare il contrasto avvenuto e trovare le risorse per una mediazione tra i piccoli antagonisti.          Il genitore o l'educatore devono facilitare la trasformazione della frustrazione provata dai bambini protagonisti del conflitto in un confronto creativo, favorendo la gestione autonoma dello stesso attraverso un processo di responsabilizzazione. L'altro non è più trasparente, ma diventa limite attivo e il bambino deve imparare ad usare nuove strategie per ristabilire l'equilibrio, per continuare a giocarci insieme.           Novara elenca i diversi pregiudizi che la nostra società ha da sempre alimentato sul conflitto. Uno fra tutti: il conflitto non è sinonimo di violenza. Anzi saper stare nel conflitto, imparare ad addomesticarlo, evita la violenza. Quest'ultima tende ad eliminare il problema eliminando direttamente l'altro; il conflitto invece è ancora relazione, necessita dell'altro da sé. Il conflitto non è quel qualcosa che va risolto per seguire a tutti i costi il falso mito dell'armonia: esso si impara, con fatica, e non con l'ausilio della moderazione, ma con la mediazione, ricreando cioè la comunicazione, restando nel problema, affrontando insieme le emozioni negative che il conflitto stesso innesta.           In questo interessante saggio, scritto con linguaggio semplice e asciutto, dai toni severi e di forte realismo, ritroviamo una prima parte teorica che fornisce una preziosa riflessione pedagogica sui bisogni autentici dei bambini al fine di scoprire «accorgimenti pedagogici, spazi e strumenti educativi che possono efficacemente aiutarli a crescere liberi, autonomi e responsabili» ed una seconda parte nella quale vengono illustrati strumenti, giochi, proposte pratiche che possono agevolare i professionisti coinvolti nei processi educativi.            È vero: la conflittualità e l'antagonismo relazionali si possono tradurre in violenza, ovvero prevaricazione, imposizione, lesione dell'integrità e della libertà altrui, delegittimazione delle identità, offesa della dignità e mancanza di reciprocità. Ma anche in un'occasione unica di confronto costruttivo, emancipazione dalla crisi e crescita, sia individuale che relazionale. Non priviamo allora i bambini del diritto di litigare, per crescere in autonomia.Rose Marie Callà
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