Parigi, un turista fotografa un uomo che non si sa se sia vivo o morto... Ma il mio problema è ora un altro, ed è sorto appena attraversata la strada: un problema educativo. Al riparo dalla pioggia, con un nuovo rosso al semaforo pedonale, tento di spiegare ai miei studenti quello che ho appena visto...
del 03 gennaio 2010
 
Cinque dicembre, sabato mattina, Parigi, un semaforo pedonale rosso tra Palais Royal e il Louvre. Pioggia, in questi secondi battente. C’è aria pesante nella capitale, da dieci giorni i musei più visitati d’Europa sono chiusi, salvo sporadiche aperture, per protestare contro i tagli alla cultura del ministro Frédéric Mitterrand. Sotto i cartelli “en grève”, sciopero, spunta una beffarda riproduzione dell’Incoronazione di Napoleone di J.L. David, con Sarkozy che ghignante cinge il capo all’ignoranza, benedetto dallo sguardo complice della moglie Carla. Il semaforo diventa verde e i pedoni attraversano. A pochi metri dal semaforo un uomo grosso e nero, schienato sulla pietra, avvolto in coperte stracce e fradice, con il volto all’aria e alla pioggia, gli occhi chiusi e tutto l’insieme immobile. Ha del tutto l’aspetto di chi la notte l’ha passata lì, solo, ma allo spuntar del giorno si è ritrovato su una rotta trafficata, sul marciapiede sbagliato. Se sia vivo o morto non saprei dirlo. Come la gente gli passi sopra e intorno questo lo vedo. Ci son passato anch’io? Me lo chiedo per un istante. No.
C’è un turista che si ferma: solleva la sua macchina fotografica appesa al collo, si inginocchia quasi fino al livello della strada e scatta una foto all’uomo a terra, attento a stampare la sua grossa massa scura sullo sfondo di un bel palazzo di rue de Rivoli. La giornata è grigia, poca luce, scatta il flash, ma l’uomo a terra non si muove. Il semaforo è sul giallo. Il turista attraversa impunito, lo perdo di vista. I miei studenti sono già quasi tutti dall’altro lato della strada; sono a Parigi per accompagnarli in viaggio di istruzione, stavolta sono io che seguo loro, passo la strada e mi riparo dalla pioggia sotto il fornice d’ingresso ai giardini del Louvre.
 
Otto dicembre, Roma, festa dell’Immacolata. Scrivo queste righe perché l’episodio parigino mi ha confermato un’idea che negli ultimi tempi realizzavo sempre più concretamente. Il male ha bisogno di una definizione per essere riconosciuto, come ogni altra cosa dei nostri tempi va etichettato. E per apparire meglio ha bisogno della sua vetrina ideale. Stentiamo a disapprovare un comportamento negativo, o magari solo a riconoscerlo, se non è già catalogato tra i deplorevoli, se non è ben collocato in un ambiente semanticamente già segnato dal male. Fuori dall’ambiente a cui già attribuiamo degrado, rischio, ignoranza il processo crimine-indignazione-denuncia ci appare meno scontato, si fa poco riconoscibile. È forse questo il motivo per cui sono sempre poco identificabili i reati perpetrati dentro casa, luogo istintivamente sentito come benefico. Il motivo per cui di rado rimproveriamo agli amici gli errori contro gli altri.
Chi non ricorda l’indignazione generale per la reazione dei passanti napoletani di fronte al cadavere dell’uomo freddato in strada dalla camorra? Meno strombazzato, ma più o meno contemporaneo è stato il disappunto mediatico per l’indifferenza dei tassisti romani di fronte all’aggressione di un uomo avvenuta nottetempo alla stazione Termini. Comportamenti  diversi, in parte dettati da una comprensibile paura o da una istintiva codardia, ma che più o meno a tutti hanno suggerito le medesime ben pensate riflessioni. Omertà, mancanza di rispetto per la vita, abitudine al crimine ed ecco spiegata la camorra. Cinismo, indifferenza, una punta di razzismo ed ecco spiegata la violenza urbana. In una strada di Napoli, in una notte di una stazione metropolitana il male è subito riconosciuto e processato: lo pensiamo in quei contesti incarnato.
Ma a rue de Rivoli, sull’uscio del Louvre? Ha un nome criminale la curiosità di un uomo che fotografa un suo simile sofferente piuttosto che aiutarlo? È una verosimile scena del delitto l’elegante boulevard? Abbiamo il nome del fenomeno che quest’atto disumano produce? Se una telecamera nascosta avesse filmato il turista fotografo avremmo avuto generale indignazione? L’avremmo avuta se una telecamera nascosta avesse filmato me, i miei studenti e le centinaia di persone frettolose tutti distratti da altro? Penso sarebbe stata lieve e vaga.
Nulla c’entrano qui l’indole di un popolo o di un altro (potevano non essere tutti italiani i passanti di Napoli o i tassisti di Roma, poteva essere italiano il turista a Parigi): la vigliaccheria è tutta umana ed è universale; anche il nostro sentire meccanico e ripetitivo è un fenomeno che diventa globale.
Ma il mio problema è ora un altro, ed è sorto appena attraversata la strada: un problema educativo.
 
Al riparo dalla pioggia, con un nuovo rosso al semaforo pedonale, tento di spiegare ai miei studenti quello che ho appena visto: mi mancano le parole. Non è un colpo di pistola, non un atto terroristico, non un agguato razzista e nemmeno forse il vile racket dei mendicanti e degli infermi per strada. Non trovo le parole. È  una fotografia tra le mille che si scattano in ogni angolo di Parigi. Di cosa parla? Così sembrano dirmi con gli occhi i ragazzi. Ne riparleremo, penso, più asciutti, senza orari da rispettare, senza tutta questa folla intorno.
 
Cercherò di fare il mio lavoro, semplicemente, quello del professore di italiano: insegnare loro a dare un nome alle cose, a descriverle, a raccontarle. Lo faremo insieme, troveremo un nome per questo crimine. In modo che a chiunque appaia più chiaro. Oggi con queste righe chiedo anche perdono. Non so dirvi se quell’uomo fosse vivo o morto.
Stefano Colucci
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