NIGERIA. L'attacco nella notte, in cinquecento uccisi a colpi di machete. Dopo gli scontri di gennaio, una nuova strage fra gruppi etnici. Tra instabilità politica e vendetta, chi vive là ci racconta «la sete di potere dei musulmani del Nord...»
del 11 marzo 2010
Sono arrivati in piena notte correndo e sparando, al grido di «Allah Akbar», per svegliare la gente e farla uscire dalle case. Poi hanno massacrato donne, ragazzi, bambini a colpi di machete, mentre cercavano di fuggire. Ne hanno uccisi cinquecento. All’alba le strade erano coperte di cadaveri. Le case bruciate. L’attacco musulmano ai villaggi cristiani alle porte della città nigeriana di Jos, nello Stato del Plateau, si è consumato nella notte tra domenica e lunedì. Bande di Hausa e Fulani, etnie del Nord del Paese a maggioranza islamica, sono scese dalle montagne e hanno fatto una carneficina. Soprattutto a Dogo Na Hawa, villaggio abitato dalla tribù cristiana dei Berom.
«Questa tragedia ci ha colti tutti di sorpresa. Dopo gli scontri di gennaio, la situazione sembrava si fosse stabilizzata». Suor Caterina Dolci, missionaria bergamasca in Nigeria da ventisei anni, vive vicino a Jalingo, a otto ore dai luoghi dell’attacco. Ma Jos è la sua seconda casa: là vivono tanti amici e le sue consorelle del Bambin Gesù. «Ora la gente è impaurita e vive nell’allerta. Per la prima volta l’attacco è stato sferrato di notte e sono arrivati addirittura dal Bauchi, un altro Stato, nel nord-est della Nigeria. Gli aggressori sono musulmani del Nord che vogliono conquistare la zona di Jos, prevalentemente cristiana. È un tentativo continuo, a volte subdolo, che perseguono comprando e sottraendo anche i terreni».
L’attacco a Jos irrompe in un momento di instabilità politica. Il presidente federale in carica, Umaru Musa Yar’Adua, è gravemente malato e, dal 9 febbraio, è stato sostituito nelle sue funzioni dal vice presidente, il cristiano Jonathan Goodluck. «I giornali esteri, anche italiani, riconducono l’attacco a questa situazione delicata, ma invece non c’entra», spiega Maria Rita Sala, che lavora per Avsi a Lagos.
A poche ore dal massacro, l’arcivescovo di Abuja, monsignor Jhon Olorunfemi Onaiyekan, parla di un conflitto etnico, «tra pastori e agricoltori: cioè tra Fulani , che sono tutti musulmani, e Berom, tutti cristiani. Le vittime sono povera gente che non ha niente a che fare con tutto questo e non ha alcuna colpa». Le ragioni degli scontri di gennaio, come di quest’ultimo massacro, «sono determinate dalla sete di potere dei gruppi musulmani del Nord, in particolare dei Fulani», ribadisce Maria Rita: «Ogni occasione è buona per cercare di affermarsi, a danno dei cristiani».
Infine, i vescovi locali si sono detti «rattristati», perché il governo, che avrebbe il compito di garantire la sicurezza di tutti i cittadini, «sembra non avere la capacità di farlo: è debole». Eppure, dopo i fatti violenti di gennaio, Goodluck, insieme ai capi musulmani moderati e con l’aiuto dell’arcivescovo di Jos, monsignor Ignatius Ayau Kaigamaha, ha creato una commissione proprio per cercare di favorire un percorso di riconciliazione. «Ora con questa strage», conclude suor Caterina, «la gente è ripiombata nella paura e nella rabbia. I villaggi cercano di difendersi e aiutarsi a vicenda, come possono».
Alessandra Stoppa
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