Il missionario Sandokan

Di quando in quando le fiere assalgono non solo i pedoni, ma pur chi cavalca animali domestici. Oltre il grosso lupo dorato, vi sono grossi bufali selvatici, cinghiali e rinoceronti con la tremenda tigre...

Il missionario Sandokan

da Quaderni Cannibali

del 02 luglio 2010

 

              «Di quando in quando le fiere assalgono non solo i pedoni, ma pur chi cavalca animali domestici. Oltre il grosso lupo dorato, vi sono grossi bufali selvatici, cinghiali e rinoceronti con la tremenda tigre... Nello spazio di sei settimane ivi trascorse, la tigre involò tre buoi e suor Nazarena medesima ne vide uno col collo sanguinante che, erompendo dai folti ed alti canneti, fuggiva verso l’abitato».

 

              Chissà se Salgari ha letto queste pagine, ma certo gli sarebbero piaciute. Il brano è davvero degno della Tigre della Malesia, infatti, e invece è tratto dalla lettera di un missionario italiano nel Bengala Centrale, anno 1873, pubblicata sul periodico Le missioni cattoliche. E non è detto che in effetti l’immaginifico inventore di Sandokan e del Corsaro Nero non abbia avuto sul serio occasione di compulsare il periodico (predecessore della rivista del Pime di Milano Mondo e Missione) sui banchi di qualche biblioteca, magari prendendo appunti sulle relazioni etnografiche «Pagode e templi braminici» e «I primi abitatori del Bengala» effettivamente apparse sulla rivista tra 1886 e 1888.

              Certo, Salgari era veronese ed è dunque logico che il suo riferimento principe fossero i comboniani, la congregazione nata nella città scaligera: tra le righe dei suoi romanzi sono infatti nascoste le prove che «il padre degli eroi» aveva febbrilmente compulsato resoconti missionari, usandoli poi come fonte per descrivere gli ambienti di esotiche avventure (il «capitano» non inventa nulla, sostengono da tempo i suoi esegeti). Ma i figli del Comboni hanno per scopo la «Nigrizia», ovvero il continente africano; per l’Asia invece, e in specie quei territori dove spadroneggiavano i thugs di Suyodhana e i tigrotti di Mompracem, avrebbe potuto attingere con più frutto alla corrispondenza dell’allora Seminario Lombardo per le Missioni Estere (oggi appunto Pime), che fin dalla metà dell’Ottocento mandò i suoi inviati in India, nel Borneo e – si diceva – nel Bengala.

              Che storie avrebbe avuto cui ispirarsi, l’inesauribile «capitano»! Ce ne dà ora prova l’ennesima fatica di padre Piero Gheddo, che conclude la sua opera di direttore dell’Ufficio storico del Pime con il volumone Missione Bengala (Emi, pp. 512, euro 20), in cui narra appunto i 155 anni di presenza del suo Istituto nella terra che sulle cartine è ormai definita Bangladesh. Il testo s’addentra fino ai giorni nostri, raccogliendo testimonianze bellissime di dedizione ai poveri ed evangelizzazione. Ma è chiaro che un fascino particolare lo esercitano i primi capitoli, là dove appunto si dà conto di scenari veramente «salgariani».

              Il Pime – scrive Gheddo – accettò di andare in Bengala nel 1854, dopo che «altre tre congregazioni religiose l’avevano rifiutato 'perché oltremodo difficile e sterile'»; a causa del clima pessimo, la regione era nota come «tomba dell’uomo bianco». Infatti, annota ancora il religioso giornalista, «non esiste, nella storia del Pime, un’altra missione che nei suoi primi 15-20 anni abbia accumulato un numero così alto di morti precoci per motivi di salute, in parte dovute all’insufficiente alimentazione e all’assenza di medicine per i missionari». I primi 4 italiani arrivano a Calcutta già nel 1855 e di lì risalgono un po’ più a nord per lavorare in un territorio vasto come un terzo dell’Italia e popolato da 7 o 8 milioni di indù, islamici e animisti.

              Nel 1857-58 si trovano proprio al centro dell’ammutinamento dei sepoys, i soldati indiani inquadrati nell’esercito inglese; un evento di cui Salgari parla ne Le due Tigri (1904) italianizzando in Barrampore la città di Berhampur: proprio il luogo dove si erano stanziati gli italiani del Pime per imparare la lingua! Interessante notare una certa assonanza tra le descrizioni della rivolta. Un anonimo missionario: «L’annessione dell’India da parte del governo inglese non garbava alla grande maggioranza degli indiani... L’intelligenza era considerata monopolio degli inglesi, mentre gli indiani non erano che dei retrogadi... Questi apprezzamenti avevano ferito l’amor proprio indiano». Salgari: «Già da tempo un profondo malumore, abilmente dissimulato però, regnava fra i reggimenti indiani accantonati a Merut, a Cawnpore ed a Lucknow, feriti nel loro orgoglio di casta dalla nomina di qualche capo di rango inferiore»...

              Passata la rivolta, tocca a cicloni e inondazioni; la cronaca missionaria ricorda quella che nell’agosto 1871 creò molti profughi: «Ho dovuto attraversare in barca villaggi e mercati sepolti sotto 20 piedi d’acqua (circa 5 o 6 metri). Sui fiumi la violenza della corrente era tale che in nessun modo e nonostante tutti gli sforzi era possibile rimontare. Tutt’intorno era un immenso mare a perdita d’occhio, nel quale case, animali, eccetera, tutto era perito».

              Conferma da par suo Salgari, ancora ne Le due Tigri: «Gli uragani che scoppiano nella grande penisola indostana non hanno ordinariamente che una durata brevissima, però la loro violenza è tale che noi europei non possiamo farcene un’idea. Occorrono pochi minuti per devastare delle regioni intere e rovesciare perfino delle città. La forza del vento è incalcolabile e soli i grossi edifizi vi possono resistere ed i più colossali alberi come i pipal ed i fichi delle pagode. Basta ricordare, per farsene una pallida idea, quello scoppiato nel Bengala nel 1866 che uccise ventimila bengalesi a Calcutta e centomila nelle pianure costeggianti l’Hugly».

              Ciò nonostante un inviato del Pime si stanzia a Jessore, nell’attuale Bangladesh, «la città più malsana del Bengala» perché regno della malaria, e di lì si spinge verso il delta del Gange, nelle famose Sunderbunds (letteralmente «foresta meravigliosa»): il regno della tigre del Bengala! Inutile specificare che siamo in piena zona salgariana, basta sfogliare I misteri della giungla nera (1887): «Dite al bengalese di porre piede nelle Sunderbunds ed egli si rifiuterà; promettetegli 100, 200, 500 rupie, e mai smuoverete la incrollabile sua decisione... Inoltrarsi in quelle jungle, è andare incontro alla morte. Infatti è là, fra quegli ammassi di spine e di bambù, fra quei pantani e quelle acque gialle, che si celano le tigri spiando il passaggio dei canotti e persino dei navigli, per scagliarsi sul ponte e strappare il barcaiuolo od il marinaio che ardisce mostrarsi».

              Invece i sacerdoti del Pime ci vanno. Uno di loro scrive nel 1866: «Tutto intorno non vi sono che leopardi, tigri, rinoceronti, bufali selvatici. Questa povera gente vanno in foresta in truppa per paura delle tigri a tagliare il bosco... Di tratto in tratto vanno poi a tagliare le canne d’India, vendute ad alto prezzo, ma a rischio della vita. Qualche anno fa il mio catechista fu portato via dalla tigre, così 4 mesi fa un altro cristiano». Nel 1874 i missionari italiani stabiliscono una casa pure a Khulna, la città più vicina al delta. «Padre Alberto Cazzaniga – narra Gheddo – vi rimane per una quindicina d’anni, aprendo la via alla missione nel Sunderbund anche con un intervento di tipo sociale a favore dei suoi cristiani.

              Questi si lamentavano dell’agente del loro proprietario terriero, che li opprimeva pretendendo da loro più del compenso pattuito. Il missionario va a trovarlo diverse volte, agisce con diplomazia e riesce ad ottenere giustizia per la sua gente». Meglio di Sandokan...

Roberto Beretta

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