Il mondo salvato dagli eremiti

Ritiro non significa necessariamente isolamento, solitudine non implica lontananza e disinteresse.

Il mondo salvato dagli eremiti

da Teologo Borèl

del 13 settembre 2010

         

 

          Solitudine e comunione, si può sostenere, non si escludono a vicenda. Sono interdipendenti e complementari. È questa una verità che Cicerone evidenzia quando parla di se stesso come di persona «mai meno sola di quando è sola».

          Una persona, in altri termini, può essere sola nel senso che non è nell’immediata compagnia di altri, e tuttavia, se vive un’intensa e creativa vita spirituale, nelle proprie profondità scopre un indissolubile vincolo di comunione con gli altri. Ritiro non significa necessariamente isolamento, solitudine non implica lontananza e disinteresse.

          Quanti sono compartecipi della nostra umanità possono essere fisicamente assenti, ma sono spiritualmente presenti. La comunione può esistere a molti diversi livelli. Dal suo deserto cristiano, Evagrio Pontico afferma la stessa cosa quando dice che il monachòs, con cui forse intende non solo il monaco ma proprio il solitario, è «separato da tutti e unito a tutti».

          Questo descrive esattamente la situazione dell’anacoreta, uomo o donna che sia: «separato da tutti» esternamente, in termini spaziali o topografici, ma interiormente e spiritualmente «unito a tutti» attraverso la preghiera. Come dice abba Lukios nei Detti dei padri del deserto, «se non impari prima a vivere con gli altri, non sarai capace di vivere in solitudine come dovresti».

          Il futuro eremita deve prima essere provato e saggiato dall’esperienza della vita nel cenobio. Come dovrebbe un solitario organizzare il suo tempo ogni giorno? Anche qui c’è varietà, ed è giusto che sia così. Come afferma William Blake, «una sola legge per il leone e per il bue significa oppressione». San Cristodulos prevede che i suoi eremiti vivano di vegetali crudi e che mangino una volta al giorno di pomeriggio. Una descrizione un po’ più completa del programma quotidiano dell’eremita e della sua dieta ci è fornita da un testimone del XIV secolo, san Gregorio Sinaita.

          Egli divide il giorno in 4 periodi di tre ore ciascuno. Partendo dall’aurora, il solitario esicasta impiega la prima ora del giorno in ciò che Gregorio chiama «ricordo di Dio attraverso la preghiera e la vigilanza del cuore», cioè in primo luogo la recitazione della preghiera di Gesù. La seconda ora è dedicata alla lettura e la terza alla psalmodia, la recitazione del salterio. Gregorio probabilmente prevede che il solitario conosca il salterio a memoria. Il secondo e il terzo di questi periodi di tre ore sono consacrati alle stesse tre attività, nello stesso ordine.

          Poi, alla decima ora del giorno il solitario prepara e consuma il suo pasto. All’undicesima ora, se vuole, può prendersi un breve riposo. Alla dodicesima ora recita vespro. Per la notte Gregorio propone tre programmi alternativi. Gli «incipienti» devono passare metà della notte svegli e l’altra metà dormendo, con mezzanotte come punto di divisione; non importa quale metà della notte è usata come veglia. Quelli «a metà del cammino» (mesoi) devono passare le prime due ore della notte svegli, le successive 4 dormendo e le 6 restanti svegli.

Il «perfetto», aggiunge Gregorio con asciutto tocco di umorismo, non ha bisogno di dormire, per cui può passare tutta la notte stando in piedi e rimanendo sveglio. Nelle ore di veglia della notte il solitario recita il mattutino (orthros) e probabilmente prima di esso il mesonykton, o ufficio di mezzanotte; poi, all’aurora, l’ora prima. Il resto della veglia notturna si può passare ancora nella recitazione del salterio, nella lettura, e soprattutto nella pratica della preghiera di Gesù.

          È significativo che il solitario non è esentato dalla recitazione dell’ufficio divino. Ma cosa succede se non sa leggere? Gregorio non lo dice; probabilmente in questo caso si prevede che egli dica la preghiera di Gesù, e di fatto esistono regole precise, che specificano quante centinaia di preghiere di Gesù devono sostituire le diverse parti dell’ufficio divino. Come nei regolamenti per Patmos, Gregorio prevede che il solitario mangi solo una volta al giorno, dopo l’ora nona e prima del vespro. Egli non fa menzione di alcun pasto leggero prima di questo. Probabilmente durante la quaresima il solitario, seguendo le normali regole ortodosse, non mangiava fino a dopo vespro.

          Nella prima settimana di quaresima e nella settimana santa osservava indubbiamente un digiuno più rigoroso, come fanno molti monaci nei cenobi. Gregorio permette al solitario di mangiare una libbra di pane al giorno, di bere due coppe di vino e tre di acqua. Altrimenti il suo cibo deve consistere in «qualunque cosa sia a portata di mano, non qualunque cosa il tuo impulso naturale ricerca, ma ciò che la provvidenza provvede, da essere mangiato senza troppa spesa».

          Questo probabilmente comprendeva verdure fresche, quando ce n’erano; perché molti eremiti, e tale è il caso al Monte Athos oggi, hanno un piccolo orto. Ma come possiamo rispondere a san Basilio quando chiede: «Di chi laverai i piedi… se vivi in solitudine?». Che servizio rende il solitario al mondo che lo attornia? Non è egoista e antisociale ritirarsi in reclusione, volgendo le spalle, così sembra, alle angosce e alle sofferenze degli altri uomini? Si tratta di una critica alla vita solitaria che è stata fatta spesso, già nel passato e più diffusamente nel nostro tempo.

          Cosa rispondiamo? È ovviamente possibile replicare con le parole di Cristo: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,6). Cristo stesso si ritirava regolarmente «in un luogo deserto» per pregare (Mc 1,35; Lc 4,42). Ma certamente, quando Cristo dice «chiudi la porta» parla di qualcosa che dobbiamo fare ogni tanto, in modo temporaneo, prima di tornare nuovamente ai doveri e alle richieste della nostra vita quotidiana in società. Non suggerisce di tenere la porta costantemente chiusa.

          Afferma semplicemente che nella vita di ogni persona attiva nel lavoro sociale occorre una dimensione di solitudine. Cosa diremo dunque di coloro per i quali la solitudine è una condizione permanente? Fra tutte le possibili risposte alla domanda di san Basilio, la migliore a mia conoscenza è quella fornita da san Serafino: «Acquisisci la pace interiore – egli dice – e migliaia attorno a te troveranno la salvezza».

          Il solitario è in grado supremo uno che cerca con la grazia di Dio di acquisire la pace interiore; ed è precisamente in questo modo che assiste agli altri. Se in ogni generazione ci sono non più di un pugno di persone, uomini e donne, che nella reclusione hanno acquisito la pace del cuore, essi hanno sull’intera comunità umana che li circonda un effetto creativo che supera ogni calcolo (anche se naturalmente l’acquisizione della pace interiore è possibile anche a quelli che vivono in mezzo alla società).

          Ora i solitari che hanno acquisito la pace interiore possono certamente aiutare gli altri uomini direttamente agendo da padri e madri spirituali, dando consigli a quanti vanno da loro di persona cercando assistenza. Una guida di questo tipo fu l’eremita egiziano sant’Antonio, che nella seconda metà della sua vita divenne, con le parole del suo biografo sant’Atanasio di Alessandria, «un medico dato all’Egitto da Dio».

          Ma le parole di san Serafino hanno un campo d’applicazione più ampio. Attraverso la loro preghiera nascosta i solitari aiutano anche moltissimi altri ai quali la loro esistenza è totalmente sconosciuta. Diventando fiamme ardenti di preghiera i solitari trasformano il mondo circostante solo con la loro esistenza, con il semplice fatto della loro segreta presenza. È questo il fondamentale contributo fornito da chi è «separato da tutti e unito a tutti».

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