Donarsi è «svuotarsi»? Sì, ma con una particolare sottolineatura: che la carità, quando è divisa, non è mai diminuita. Quando io dono tutto me stesso a Cristo, sono riempito cento volte tanto.
del 11 dicembre 2009
<!-- @page { margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->La nostra vita è definita da ciò che ci attrae e non dai nostri limiti. Quando uno cammina, ha in mente soprattutto la meta e questo pensiero determina anche il suo itinerario. Se uno deve andare in pellegrinaggio a Santiago di Compostela o a Czestochowa, o a Chartres, che cosa domina il suo cuore? Il desiderio di arrivare. Se risentissimo le testimonianze dei seminaristi che quest’anno hanno percorso il cammino verso Santiago de Compostela, saremmo sicuramente colpiti dal fatto che il momento più emozionante per loro è stato l’arrivo nella piazza davanti alla Cattedrale, dove si sono inginocchiati cantando il Non nobis Domine.
 
È la meta che domina la nostra vita e determina e illumina i passi di ogni giorno. Tutto ciò segna la differenza profonda fra ogni messianismo umano e il cristianesimo. Il messianismo umano, ogni ideale rivoluzionario, è costretto a cancellare il presente per affermare il futuro. “I morti di oggi, i sacrifici di oggi non contano, sono necessari al domani.” Nel cristianesimo, invece, la meta illumina e riscalda il presente, dà luce e giudizio su di esso e forza per viverlo.
Durante il viaggio, i piedi continuano a fare male, ma tale dolore non è tutto: il desiderio della meta e l’essere insieme agli altri rendono le fatiche tollerabili. Così è nella vita illuminata da Cristo. Il nostro male non ci definisce. Non per questo dobbiamo sottovalutarlo, ma è possibile attraversarlo, anzi addirittura capovolgerlo, facendolo diventare, nell’umiliazione di cui esso è causa, una pedana di lancio per la nostra esistenza.
Con l’immagine del pellegrinaggio ho voluto descrivere il nostro cammino verso la maturità affettiva. Essa è resa possibile innanzitutto dalla presenza di un’autorità. Se non c’è un’autorità, non c’è una guida al pellegrinaggio della vita, non c’è un indirizzo, non c’è la certezza della strada. È tale certezza a segnare i confini ai nostri limiti e ai nostri peccati. La certezza della strada fa sì che essi non siano l’ultima parola, ma siano confinati e poi, a poco a poco, se Dio vuole, in alcuni casi addirittura vinti.
Riecheggiando un’espressione di don Giussani, possiamo dire di essere pellegrini mendicanti. Siamo pellegrini in cammino, ma non degli sbandati, gente che non ha meta, che oggi è qua e domani è là. Questo non è il pellegrino. Il pellegrino è un uomo abitato dalla meta. Per questo può raggiungerla. È abitato dalla meta perché altri sono con lui in cammino verso quella stessa meta. Non c’è niente di statico nella nostra compagnia, di definito a priori, nessun soffocamento della personalità, dell’originalità dell’io. All’opposto, tutto è per noi, per la nostra crescita, perché la peculiarità di ciascuno possa concorrere ad edificare la gloria, che è di molti colori.
 
Amare Dio, sé e il prossimo
Viene in mente l’espressione di Gesù, che a sua volta traeva anche dall’Antico Testamento: «Ama Dio con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22, 37-39). Vorrei dire almeno qualcosa sui tre amori: di Dio, del prossimo e di sé.
Leggendo il vangelo notiamo l’insistenza di Gesù che ci invita ad amare Dio con tutto noi stessi. Nello stesso tempo, egli parla dell’amore al prossimo come di un amore simile al primo (cfr. Mt 22, 39). Perché è simile al primo? Oppure, pensiamo a Giovanni che dice: «Come fai ad amare Dio che non vedi, se non ami prima il tuo prossimo che vedi?» (cfr. 1 Gv 4, 20). Che cosa viene prima, che cosa viene dopo?
Solo apparentemente siamo davanti ad una serie di incongruità. Amare Dio con tutto noi stessi vuol dire che il cambiamento della nostra vita non ha fine. Colui che ci attrae è infinito, non è mai riducibile all’idea che mi faccio di Lui. Dentro la carne della nostra vita c’è un infinito che ci attrae.
Il compimento affettivo non è innanzitutto qualcosa che io faccio per amare gli altri, per tollerare gli altri, per essere più buono. La maturità affettiva è aderire a Colui che mi attrae. Mi attrae innanzitutto con il suo Spirito attivo, con il suo Figlio che mi parla. Mi attrae attraverso il corpo di suo Figlio. Questa è la maturità affettiva, lasciarsi attrarre: Amor meus, pondus meum. Conosciamo questa frase che Agostino ci ha lasciato, perché la leggiamo ogni anno nel breviario: «Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l’alto» (Confessioni, 13, 9). È quella delectatio victrix che Giussani ha citato in uno dei suoi primissimi testi. È l’infinito che mi attrae. Questo infinito però non è un sentimento infinito, non è un’esperienza infinita, è una Persona. L’infinito è un Tu reso carne.
Questa è la maturità affettiva: non resistere a Colui che mi attrae. Ma l’infinito mi attrae attraverso il suo Spirito e non posso mai disgiungere il suo Spirito dal suo Corpo. Cominciamo così a scoprire l’amore del prossimo. Perché Gesù ha detto che questo comandamento è simile al primo? Perché io non posso amare Dio che non vedo, se non amo il prossimo che vedo. Il luogo attraverso cui Dio mi attrae è la realtà umana in cui ha posto la mia vita. Questa realtà umana è composta da una serie infinita di riferimenti, che va dalle persone che più hanno inciso nella mia vita a quelle che ho incontrato per un solo minuto, ma che, senza che io me ne accorgessi, hanno lasciato qualcosa dentro di me. «Il prossimo» è un neologismo inventato da Gesù.
È l’infinito che ti raggiunge attraverso delle persone più vicine di altre. Me le ha messe lì proprio per questo, perché l’infinito non fosse un’idea, non fosse semplicemente un sentimento, un partito, una fazione, un’ideologia. La grazia più grande che Dio può fare alla vita di un uomo o di una donna sono le persone che fa loro incontrare e la compagnia che queste persone realizzano verso di loro. I lacci infiniti, di cui parla il Cantico dei cantici, sono soprattutto una quotidianità di incontri.
La purificazione dell’amore
Cristo mi attrae principalmente attraverso le cose e le persone. La mia anima ferita e stanca potrebbe fermarsi ad esse. L’idolatria non è altro che confondere la creatura col Creatore. Ecco la necessità continua della purificazione dell’amore.
Ciò che vi dico è dominato da una espressione di don Giussani che ho commentato decine e decine di volte e che, nel libro che ho scritto su di lui, ho richiamato come uno dei punti più alti, più impressionanti e veramente innovativi nella storia della Chiesa recente: la definizione di verginità come distanza nel possesso o come possesso con dentro una distanza. Bisogna prenderla tutta questa frase. Vi è l’esaltazione dell’umano in Cristo, che ha contraddistinto tutta la vita di don Giussani, e l’inevitabilità del sacrificio, che egli ha sempre richiamato come condizione della strada. Nessuno vuole cancellare, reprimere, mettere tra parentesi amicizie e sentimenti, ma dobbiamo essere molto chiari e chiederci: cosa vuole Dio da me? E cosa vuol dire rispettare l’altro secondo la strada che Dio gli ha assegnato?
Cristo non è paradossale. Cristo ci dona un’infinità di affetti umani per aiutarci a capire cosa vuol dire amarlo. Non mi provoca scandalo che uno dica: «A me sembra di amare più quella persona lì di Gesù», perché il nostro cammino verso l’Infinito è senza fine e prima di amare Dio che non vedi, ami il prossimo che vedi. Ma ami il prossimo che vedi per camminare verso Dio, per camminare verso la pienezza di te.
Amare se stessi
«Ama il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 19, 20): è una frase che ci fa entrare nel cuore più profondo della rivoluzione portata da Gesù, la stessa rivoluzione che Egli ha espresso dicendo: «Chi si perde si trova» (cfr. Lc 9, 25), la stessa rivoluzione che ha portato dicendo: «Sono venuto perché abbiate la vita, perché siate nella gioia» (cfr. Gv 10, 10; Gv 15, 11). Gesù è venuto per il nostro compimento. Uno che non ama sé non può amare Dio e gli altri. «Credono di amare Dio perché non amano nessuno», ha scritto Simone Weil.
Non puoi amare te stesso, se non riconosci di ricevere il tuo essere da Colui che ti ha fatto, se non riconosci di essere creatura. Scopri così la positività della creazione. Poi scopri di essere persona salvata, scopri la preziosità della morte e resurrezione di Cristo; scopri di essere persona chiamata, scopri il privilegio di ogni vocazione.
Questi amori, l’amore di Dio, l’amore del prossimo, l’amore di sé, sono un unico amore. Sono la descrizione del movimento dell’amore. Siccome Dio è infinito, devo imparare ad avere pazienza dei miei limiti, devo imparare a sapere che ci sono limiti che avrò fino alla fine della vita. Magari, Dio mi salva proprio perché, umiliandomi attraverso quei limiti, mi obbliga così a pregarlo, a riconoscerlo, ad amarlo. «Perché non mi insuperbissi, mi ha messo una spina nella carne, un angelo di Satana che mi schiaffeggia» (cfr. 2 Cor 12,7). Sono parole di san Paolo. Certo, molti affetti che nascono nella nostra vita ci parlano di una ricchezza nuova che ci aspetta. Ma quando essi divengono sregolati, parlano anche di un buco che c’è nella nostra esistenza.
L’amore al lavoro
Ogni responsabilità che è affidata all’uomo è una strada fondamentale dell’amore. Il lavoro è, infatti, per ogni persona la strada per la sua espressione. Essa entra in relazione con gli altri e con tutta la terra e poi risponde a chi lo ha chiamato. Perciò occorre convertire il nostro sguardo sul lavoro, acquisire, dentro la preghiera, una passione per la responsabilità che ci è affidata e nello stesso tempo un distacco da essa. La vita cristiana è realmente il luogo in cui si sperimenta l’unità di ciò che nel mondo è diviso. Come essere appassionati e distaccati nello stesso tempo? È possibile? Certamente. Non solo è possibile, ma è auspicabile. Solo così l’uomo trova la verità di sé. Nella vita siamo chiamati a lasciare camminare da soli coloro che abbiamo generato e cresciuto. È molto difficile distaccarsi da coloro che siamo tentati di possedere.
Non lasceremo mai i nostri figli e i nostri amici, non li abbandoneremo, anche se essi sono chiamati a percorrere una strada che noi non avevamo preventivato. Non dobbiamo sentire come un affronto il fatto che oggi siamo qui e domani siamo chiamati ad essere là. Sicuramente ci sarà un periodo di adattamento, forse anche qualche rimpianto o nostalgia, ma poi basta. Guardiamo a ciò che ci è chiesto in questo momento, sapendo che quello che abbiamo fatto finora non è mai perduto. Non c’è un attimo che vada perduto. Questa certezza ci fa sperimentare una pienezza nell’istante, nel presente. Perché la Chiesa soffre? Perché ciascuno si sente in diritto di fare quel che gli piace, persino davanti al Papa. Nessuno più obbedisce, nessuno più è pronto ad avvertire la gloria che sta dentro all’obbedienza.
Donarsi è «svuotarsi» (cfr. Fil 2, 7)? Sì, ma con una particolare sottolineatura: che la carità, quando è divisa, non è mai diminuita. Quando io dono tutto me stesso a Cristo, sono riempito cento volte tanto.
Il seme deve morire per dare luogo alla pianta. Morire è imparare una lingua. Imparare l’ungherese, per esempio, è morire, perché uno deve dimenticare qualcosa, altrimenti non può impararlo. Imparare il cinese è lo stesso. Entrare dentro un luogo fino a immergersi in quel luogo, fino a diventare di quel luogo, senza perdere se stessi: non è il secondo capitolo della lettera di san Paolo ai Filippesi? «Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso, fino ad assumere la forma umana, fino a diventare uomo» (cfr. Fil 2, 6-7). E lo ha fatto perché noi potessimo diventare Dio, divini, partecipi della natura divina, come dice san Pietro (cfr. 2 Pt 1, 4). Questa è la descrizione di che cosa sia la missione.
 
Massimo Camisasca
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