Il Papa parla ai seminaristi di Roma. «Adesso questa prima questione: come possiamo discernere la voce di Dio tra le mille voci che sentiamo ogni giorno in questo nostro mondo. Direi: Dio parla in diversissimi modi con noi. Parla per mezzo di altre persone, attraverso amici, i genitori, i sacerdoti... Parla per mezzo degli avvenimenti della nostra vita, nei quali possiamo discernere un gesto di Dio...».
del 19 febbraio 2007
1. Santità, il nostro è il primo dei due anni dedicati al discernimento, durante il quale siamo impegnati a scrutare nel profondo la nostra persona. È un esercizio faticoso, per noi, perché il linguaggio di Dio è speciale e solo chi è attento può coglierlo tra le mille voci che risuonano dentro di noi. Le chiediamo dunque di aiutarci a capire come concretamente parla Dio e quali le tracce che lascia con il suo pronunciarsi in segreto.
Come prima parola, un grazie a Monsignor Rettore per il suo discorso. Sono già curioso di conoscere quel testo che scriverete e così anche di imparare. Non sono sicuro di essere in grado di chiarire i punti essenziali della vita del seminario, ma dico quanto posso dire.
Adesso questa prima questione: come possiamo discernere la voce di Dio tra le mille voci che sentiamo ogni giorno in questo nostro mondo. Direi: Dio parla in diversissimi modi con noi. Parla per mezzo di altre persone, attraverso amici, i genitori, il parroco, i sacerdoti. Qui, i sacerdoti ai quali siete affidati, che vi guidano. Parla per mezzo degli avvenimenti della nostra vita, nei quali possiamo discernere un gesto di Dio; parla anche attraverso la natura, la creazione, e parla, naturalmente e soprattutto, nella Sua Parola, nella Sacra Scrittura, letta nella comunione della Chiesa e letta personalmente in colloquio con Dio.
E’ importante leggere la Sacra Scrittura, da una parte in un modo molto personale, e realmente, come dice San Paolo, non come parola di un uomo o come un documento del passato, come leggiamo Omero, Virgilio, ma come una Parola di Dio che è sempre attuale e parla con me. Imparare a sentire in un testo, storicamente del passato, la Parola vivente di Dio, cioè entrare in preghiera, e così fare della lettura della Sacra Scrittura un colloquio con Dio.
Sant’Agostino nelle sue omelie dice spesso: Ho bussato diverse volte alla porta di questa Parola, finché ho potuto percepire che cosa Dio stesso diceva a me. Da un parte, questa lettura molto personale, questo colloquio personale con Dio, in cui cerco che cosa il Signore dice a me, e insieme a questa lettura personale è molto importante la lettura comunitaria, perché il soggetto vivente della Sacra Scrittura è il Popolo di Dio, è la Chiesa.
Questa Scrittura non era una cosa soltanto privata di grandi scrittori - anche se il Signore ha sempre bisogno della persona, della sua risposta personale - ma è cresciuta con persone che erano coinvolte nel cammino del Popolo di Dio e così le loro parole sono espressione di questo cammino, di questa reciprocità della chiamata di Dio e della risposta umana.
Quindi, il soggetto vive oggi come è vissuto in quel tempo, perciò la Scrittura non appartiene al passato, perché il suo soggetto, il Popolo di Dio ispirato da Dio stesso, è sempre lo stesso, equindi la Parola è sempre viva nel soggetto vivente. Perciò è importante leggere la Sacra Scrittura e sentire la Sacra Scrittura nella comunione della Chiesa, cioè con tutti i grandi testimoni di questa Parola, cominciando dai primi Padri fino ai Santi di oggi, fino al Magistero di oggi.
Soprattutto, è una Parola che diventa vitale e viva nella Liturgia, quindi la Liturgia direi che è il luogo privilegiato dove ciascuno di noi entra nel “noi” dei figli di Dio in colloquio con Dio. E’ importante: il Padre Nostro comincia con le parole “Padre Nostro”; solo se io sono inserito nel “noi” di questo “Nostro”, posso trovare il Padre; solo all’interno di questo “noi”, che è il soggetto della preghiera del Padre Nostro, sentiamo bene la Parola di Dio. Quindi, questo mi sembra molto importante: la Liturgia è il luogo privilegiato dove la Parola è viva, è presente, dove anzi la Parola, il Logos, il Signore, parla con noi e si dà nelle nostre mani; se ci poniamo in ascolto del Signore in questa grande comunione della Chiesa di tutti i tempi, lo troviamo.
Egli ci apre la porta man mano. Direi quindi che questo è il punto in cui si concentrano tutti gli altri: siamo personalmente diretti dal Signore nel nostro cammino e, nello stesso tempo, viviamo nel grande “noi” della Chiesa, dove la Parola di Dio è viva.
Poi, si associano gli altri punti, quelli del sentire gli amici, del sentire i sacerdoti che ci guidano, del sentire la viva voce della Chiesa di oggi, sentendo così anche le voci degli avvenimenti di questo tempo e della creazione, che diventano decifrabili in questo contesto profondo.
Per riassumere direi, quindi, che Dio parla in molti modi con noi. E’ importante, da una parte, stare nel “noi” della Chiesa, nel “noi” vissuto nella Liturgia. E’ importante personalizzare questo “noi” in me stesso, è importante essere attenti alle altre voci del Signore, lasciarci guidare anche da persone che hanno esperienza con Dio, per così dire, e ci aiutano in questo cammino, affinché questo “noi” diventi il mio “noi”, e io, uno che realmente appartiene a questo “noi”. Così cresce il discernimento e cresce l’amicizia personale con Dio, la capacità di percepire, nelle mille voci di oggi, la voce di Dio, che è presente sempre e parla sempre con noi.
 
2. Padre Santo, come era articolata la sua vita nel periodo della formazione al sacerdozio e quali interessi coltivava? Considerando l’esperienza fatta, quali sono i punti cardine della formazione al sacerdozio? In particolare, Maria, quale posto occupa in essa?
Io penso che la nostra vita, nel nostro seminario di Frisinga, era articolata in modo molto simile al vostro, anche se non conosco precisamente il vostro orario quotidiano. Si cominciava, mi sembra, alle 6.30, alle 7, con una meditazione di una mezz’ora, nella quale ognuno in silenzio parlava col Signore, cercava di predisporre l’animo alla Sacra Liturgia. Poi seguiva la Santa Messa, la colazione e poi, nella mattinata, le lezioni.
Nel pomeriggio seminari, tempi di studio, e poi ancora la preghiera comune. La sera, i cosiddetti “puncta”, cioè il direttore spirituale o il rettore del seminario, nelle diverse sere, ci parlavano per aiutarci a trovare il cammino della meditazione, non dandoci una meditazione già fatta, ma degli elementi che potevano aiutare ognuno a personalizzare le Parole del Signore che sarebbero state oggetto della nostra meditazione.
Così il percorso giorno per giorno; poi naturalmente c’erano le grandi feste con una bella liturgia, musica… Ma, mi sembra, e forse ritornerò su questo alla fine, che sia molto importante avere una disciplina che mi precede e non dovere ogni giorno, di nuovo, inventare cosa fare, come vivere; c’è una regola, una disciplina che già mi aspetta e mi aiuta a vivere ordinatamente questo giorno.
Adesso, quanto alle mie preferenze, naturalmente seguivo con attenzione, in quanto potevo, le lezioni. Inizialmente, nei due primi anni la filosofia, mi ha affascinato, fin dall’inizio soprattutto la figura di Sant’Agostino e poi anche la corrente agostiniana nel Medioevo: San Bonaventura, i grandi francescani, la figura di San Francesco d’Assisi.
Per me era affascinante soprattutto la grande umanità di Sant’Agostino, che non ebbe la possibilità semplicemente di identificarsi con la Chiesa perché catecumeno fin dall’inizio, ma che dovette invece lottare spiritualmente per trovare man mano l’accesso alla Parola di Dio, alla vita con Dio, fino al grande sì detto alla sua Chiesa.
Questo cammino così umano, dove anche oggi possiamo vedere come si comincia ad entrare in contatto con Dio, come tutte le resistenze della nostra natura debbano essere prese sul serio e poi debbano anche essere canalizzate per arrivare al grande sì al Signore. Così mi ha conquistato la sua teologia molto personale, sviluppata soprattutto nella predicazione. Questo è importante, perché inizialmente Agostino voleva vivere una vita puramente contemplativa, scrivere altri libri di filosofia…, ma il Signore non l’ha voluto, l’ha fatto sacerdote e vescovo e così tutto il resto della sua vita, della sua opera, si è sviluppato sostanzialmente nel dialogo con un popolo molto semplice. Egli dovette sempre, da una parte, trovare personalmente il significato della Scrittura e, dall’altra, tenere conto della capacità di questa gente, del loro contesto vitale, e arrivare a un cristianesimo realistico e nello stesso tempo molto profondo.
Poi, naturalmente per me era molto importante l’esegesi: abbiamo avuto due esegeti un po’ liberali, ma tuttavia grandi esegeti, anche realmente credenti, che ci hanno affascinati. Posso dire che, realmente, la Sacra Scrittura era l’anima del nostro studio teologico: abbiamo realmente vissuto con la Sacra Scrittura e imparato ad amarla, a parlare con essa. Poi ho già detto della Patrologia, dell’incontro con i Padri. Anche il nostro insegnante di dogmatica era persona allora molto famosa, aveva nutrito la sua dogmatica con i Padri e con la Liturgia. Un punto molto centrale era per noi la formazione liturgica: in quel tempo non c’erano ancora cattedre di Liturgia, ma il nostro professore di Pastorale ci ha donato grandi corsi di liturgia e lui, al momento, era anche Rettore del seminario e così, liturgia vissuta e celebrata e liturgia insegnata e pensata andavano insieme. Questi, insieme con la Sacra Scrittura, erano i punti scottanti della nostra formazione teologica. Di questo sono sempre grato al Signore, perché insieme sono realmente il centro di una vita sacerdotale.
Altro interesse era la letteratura: era obbligatorio leggere Dostoevskij, era la moda del momento, poi c’erano i grandi francesi: Claudel, Mauriac, Bernanos, ma anche la letteratura tedesca; c’era anche una edizione tedesca del Manzoni: non parlavo in quel tempo italiano. Così abbiamo un po’, in questo senso, anche formato il nostro orizzonte umano. Un grande amore era anche la musica, come pure la bellezza della natura della nostra terra. Con queste preferenze, queste realtà, in un cammino non sempre facile, sono andato avanti. Il Signore mi ha aiutato ad arrivare fino al sì del sacerdozio, un sì che mi ha accompagnato ogni giorno della mia vita.
 
3. Allo sguardo dei più, noi possiamo apparire come dei giovani che dicono con fermezza e coraggiosamente il loro sì e lasciano tutto per seguire il Signore; ma noi sappiamo di essere ben lontani da una vera coerenza con quel sì. In confidenza di figli, le confessiamo la parzialità della nostra risposta alla chiamata di Gesù e la fatica quotidiana nel vivere una vocazione che sentiamo portarci sulla via della definitività e della totalità. Come fare a rispondere ad una vocazione così esigente come quella di pastori del popolo santo di Dio, avvertendo costantemente la nostra debolezza e incoerenza?
E’ bene riconoscere la propria debolezza, perché così sappiamo che abbiamo bisogno della grazia del Signore. Il Signore ci consola. Nel collegio degli Apostoli non c’era solo Giuda, ma anche gli Apostoli buoni, e tuttavia Pietro è caduto e tante volte il Signore rimprovera la lentezza, la chiusura del cuore degli Apostoli, la poca fede che avevano. Quindi ci dimostra che nessuno di noi è semplicemente all’altezza di questo grande sì, all’altezza di celebrare “in persona Christi”, di vivere coerentemente in questo contesto, di essere unito a Cristo nella sua missione di sacerdote.
Il Signore ci ha donato anche, per la nostra consolazione, queste parabole delle rete con pesci buoni e non buoni, del campo dove cresce il grano ma anche la zizzania. Egli ci fa sapere di essere venuto proprio per aiutarci nella nostra debolezza, di non essere venuto, come Egli dice, per chiamare i giusti, quelli che pretendono di essere già completamente giusti, di non aver bisogno della grazia, quelli che pregano lodando se stessi, ma di essere venuto a chiamare quelli che sanno di essere manchevoli, a provocare quelli che sanno di aver bisogno ogni giorno del perdono del Signore, della sua grazia per andare avanti.
Questo mi sembra molto importante: riconoscere che abbiamo bisogno di una conversione permanente, non siamo mai semplicemente arrivati. Sant’Agostino, nel momento della conversione, pensava di essere arrivato sulle alture ormai della vita con Dio, della bellezza del sole che è la sua Parola. Poi ha dovuto capire che anche il cammino dopo la conversione rimane un cammino di conversione, che rimane un cammino dove non mancano le grandi prospettive, le gioie, le luci del Signore, ma dove anche non mancano valli oscure, dove dobbiamo andare avanti con fiducia appoggiandoci alla bontà del Signore.
E perciò è importante anche il sacramento della Riconciliazione. Non è giusto pensare che dovremmo vivere così da non aver mai bisogno di perdono. Accettare la nostra fragilità, ma rimanere in cammino, non arrenderci ma andare avanti e, mediante il sacramento della Riconciliazione, sempre di nuovo convertirci per un nuovo inizio e così crescere, maturare per il Signore, nella nostra comunione con Lui.
E’ importante, naturalmente, anche non isolarsi, non pensare di poter andare avanti da soli. Abbiamo proprio bisogno della compagnia di sacerdoti amici, anche di laici amici, che ci accompagnano. ci aiutano. Per un sacerdote è molto importante, proprio nella parrocchia, vedere come la gente abbia fiducia in lui e sperimentare con la loro fiducia anche la loro generosità nel perdonare le sue debolezze. I veri amici ci sfidano e ci aiutano ad essere fedeli in questo cammino. Mi sembra che questo atteggiamento di pazienza, di umiltà ci possa aiutare ad essere buoni con gli altri, ad avere comprensione per le debolezze degli altri, ad aiutarli, anche loro, ai perdonare come noi perdoniamo.
Penso di non essere indiscreto se dico che oggi ho ricevuto una bella lettera del cardinale Martini: gli avevo espresso felicitazioni per il suo ottantesimo compleanno – siamo coetanei; nel ringraziarmi mi ha scritto: ringrazio soprattutto il Signore per il dono della perseveranza. Oggi – egli scrive – anche il bene si fa piuttosto ad tempus, ad experimentum. Il bene, secondo la sua essenza, si può solo fare in modo definitivo; ma per farlo in modo definitivo, abbiamo bisogno della grazia della perseveranza; prego ogni giorno – egli concludeva - perché il Signore mi dia questa grazia.
Ritorno a Sant’Agostino: lui era inizialmente contento con la grazia della conversione; poi scoprì che c’è bisogno di un’altra grazia, la grazia della perseveranza, che dobbiamo ogni giorno chiedere al Signore; ma come – ritorno a quanto dice il cardinale Martini – “finora il Signore mi ha donato questa grazia della perseveranza; me la darà, spero, anche per questa ultima tappa del mio cammino su questa terra”. Mi sembra che dobbiamo aver fiducia in questo dono della perseveranza, ma che dobbiamo anche con tenacia, con umiltà e con pazienza pregare il Signore perché ci aiuti e ci sostenga con il dono della vera definitività; che Egli ci accompagni giorno per giorno fino alla fine, anche se il cammino deve passare attraverso valli oscure. Il dono della perseveranza ci da gioia, ci da la certezza che siamo amati dal Signore e questo amore ci sostiene, ci aiuta e non ci lascia nelle nostre debolezze.
 
4. Beatissimo Padre, lei commentando la Via Crucis del 2005 ha parlato della sporcizia che c’è nella Chiesa, e nell’omelia per l’ordinazione dei sacerdoti romani dello scorso anno ci ha messo in guardia dal rischio “del carrierismo, del tentativo di arrivare in alto, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa”. Come porci davanti a queste problematiche nel modo più sereno e responsabile possibile?
“E’ una domanda non facile, ma mi sembra di aver detto già, ed è un punto importante, che il Signore sa, sapeva fin dall’inizio, che nella Chiesa c’è anche il peccato e per la nostra umiltà è importante riconoscere questo e vedere il peccato non solo negli altri, nelle strutture, negli alti incarichi gerarchici, ma anche in noi stessi per essere così più umili ed imparare che non conta, davanti al Signore, la posizione ecclesiale, ma conta stare nel suo amore e far brillare il suo amore. Personalmente ritengo che, su questo punto, sia molto importante la preghiera di Sant’Ignazio che dice: “Suscipe, Domine, universam meam libertatem; accipe memoriam, intellectum atque voluntatem omnem; quidquid habeo vel possideo mihi largitus es; id tibi totum restitoì ac tuae prorsus voluntati traoi gubernandum; amorem tuum cum gratia tua mihi dones ed dives sum satis, nec aliud quidquam ultra posco”. Proprio questa ultima parte mi sembra molto importante: capire che il vero tesoro della nostra vita è stare nell’amore del Signore e non perdere mai questo amore. Poi siamo realmente ricchi. Un uomo che ha trovato un grande amore si sente realmente ricco e sa che questa è la vera perla, che questo è il tesoro della sua vita e non tutte le altre cose che forse ha.
Noi abbiamo trovato, anzi siamo stati trovati dall’amore del Signore e quanto più ci lasciamo toccare da questo suo amore nella vita sacramentale, nella vita di preghiera, nella vita del lavoro, del tempo libero, tanto più possiamo capire che sì, ho trovato la vera perla, tutto il resto non conta, tutto il resto è importante solo nella misura in cui l’amore del Signore mi attribuisce queste cose. Io sono ricco, sono realmente ricco e in alto se sto in questo amore. Trovare qui il centro della vita, la ricchezza. Poi lasciamoci guidare, lasciamo alla Provvidenza di decidere che cosa farà con noi.
Mi viene qui in mente una piccola storia di Santa Bakhita, questa bella Santa africana, che era schiava in Sudan, poi in Italia ha trovato la fede, si è fatta suora e quando era già anziana il vescovo faceva visita al suo monastero, nella sua casa religiosa e non la conosceva; vide questa piccola, già curva, suora africana e disse a Bakhita: “Ma che cosa fa Lei, sorella?”; la Bakhita rispose: “Io faccio La stessa cosa che Lei, Eccellenza”. Il vescovo stupito chiese: “Ma che cosa?” e Bakhita rispose: “Ma Eccellenza, noi due vogliamo fare la stessa cosa, fare la volontà di Dio”.
Mi sembra una risposta bellissima, il Vescovo e la piccola suora, che quasi non poteva più lavorare, facevano, in posizioni diverse, la stessa cosa, cercavano di fare la volontà di Dio e così erano al posto giusto.
Mi viene anche in mente una parola di Sant’Agostino che dice: Noi siamo tutti sempre solo discepoli di Cristo e la sua cattedra sta più in alto, perché questa cattedra è la croce e solo questa altezza è la vera altezza, la comunione col Signore, anche nella sua passione. Mi sembra che, se cominciamo a capire questo, in una vita di preghiera ogni giorno, in una vita di dedizione, per il servizio del Signore, possiamo liberarci da queste tentazioni molto umane.
 
5. Santità, dalla Lettera Apostolica “Salvifici doloris” di Giovanni Paolo II emerge chiaramente quanto la sofferenza sia fonte di ricchezza spirituale per tutti coloro che la accolgono in unione alle sofferenze di Cristo. Come, oggi, in un mondo che cerca ogni mezzo lecito o illecito per eliminare qualsiasi forma di dolore, il sacerdote può essere testimone del senso cristiano della sofferenza e come deve comportarsi dinanzi a chi soffre senza rischiare di essere retorico o patetico?
Sì, come fare? Allora, mi sembra che dobbiamo riconoscere che è giusto fare il possibile per vincere le sofferenze dell’umanità e per aiutare le persone sofferenti - sono tante nel mondo - a trovare una vita buona e ad essere liberate dai mali che spesso causiamo noi stessi: la fame, le epidemie, ecc.
Ma, nello stesso tempo, riconoscendo questo dovere di lavorare contro le sofferenze causate da noi stessi, dobbiamo anche riconoscere e capire che la sofferenza è una parte essenziale per la nostra maturazione umana. Io penso alla parabola del Signore sul chicco di grano caduto in terra, che solo così, morendo, può portare frutto, e questo cadere in terra e morire non è il fatto di un momento, ma è proprio il processo di una vita.
Cadere come grano in terra e morire così, trasformarsi, essere strumenti di Dio, così portare frutto. Il Signore non per caso dice ai suoi discepoli: il Figlio dell’Uomo deve andare a Gerusalemme per soffrire; perciò chi vuole essere mio discepolo deve prendere la sua croce sulle spalle e così seguirmi. In realtà, noi siamo sempre un po’ come Pietro, il quale dice al Signore: No, Signore, questo non può essere il caso tuo, tu non devi soffrire. Noi non vogliamo portare la Croce, vogliamo creare un Regno più umano, più bello in terra.
Questo è totalmente sbagliato: il Signore lo insegna. Ma Pietro ha avuto bisogno di molto tempo, forse di tutta la sua vita per capirlo; perché questa leggenda del Quo Vadis? ha qualcosa di vero in sé: imparare che proprio nell’andare con la Croce del Signore sta il cammino che porta frutto. Così, direi, prima di parlare agli altri, dobbiamo noi stessi capire il mistero della Croce.
Certo, il cristianesimo ci dà la gioia, perché l’amore dà gioia. Ma l’amore è sempre anche un processo del perdersi e quindi anche un processo dell’uscire da se stesso; in questo senso, anche un processo doloroso. E solo così è bello e ci fa maturare e arrivare alla vera gioia. Chi vuol affermare o chi promette una vita solo allegra e comoda, mente, perché non è questa la verità dell’uomo; la conseguenza è che poi si deve fuggire in paradisi falsi. E proprio così non si arriva alla gioia, ma all’autodistruzione.
Il cristianesimo ci annuncia la gioia, sì; questa gioia però cresce solo sulla via dell’amore e questa via dell’amore ha a che fare con la Croce, con la comunione con il Cristo crocefisso. Ed è rappresentata nel chicco di grano caduto in terra. Quando cominciamo a capire e ad accettare questo, ogni giorno, perché ogni giorno ci impone qualche insoddisfazione, qualche peso che crea anche dolore, quando accettiamo questa scuola della sequela di Cristo, come gli Apostoli hanno dovuto imparare a questa scuola, allora diventiamo anche capaci di aiutare i sofferenti.
E’ vero che è sempre problematico se uno che sta più o meno in buona salute o in buone condizioni deve consolare un altro toccato da un grande male: sia malattia, sia perdita di amore. Davanti a questi mali che conosciamo tutti, quasi inevitabilmente tutto appare come solo retorico e patetico. Ma, direi, se queste persone possono sentire che noi siamo com-pazienti, che noi vogliamo portare con loro la Croce in comunione con Cristo, soprattutto pregando con loro, assistendo anche con un silenzio pieno di simpatia, di amore, aiutandoli in quanto possiamo, possiamo divenire credibili.
Dobbiamo accettare questo, che forse in un primo momento le nostre parole appaiano come pure parole. Ma se viviamo realmente in questo spirito della vera sequela di Gesù, troviamo anche il modo di essere vicini con la nostra simpatia. Simpatia etimologicamente vuol dire com-passione per l’uomo, aiutandolo, pregando, creando così la fiducia che la bontà del Signore esiste anche nella valle più oscura. Possiamo così aprire il cuore per il Vangelo di Cristo stesso, che è il vero consolatore; aprire il cuore per lo Spirito Santo, che è chiamato l’altro Consolatore, l’altro Paraclito, che assiste, che è presente.
Possiamo aprire il cuore non per le nostre parole, ma per il grande insegnamento di Cristo, per il suo essere con noi e così aiutare perché la sofferenza e il dolore diventino realmente grazia di maturazione, di comunione col Cristo crocefisso e risorto.
 
6. Santità, nei prossimi mesi, i miei compagni ed io saremo ordinati preti. Passeremo dalla vita ben strutturata dalle regole del seminario, alla situazione ben più articolata delle nostre parrocchie. Quali consigli può darci per vivere al meglio l’inizio del nostro ministero presbiterale?
Dunque, qui in seminario avete una vita ben articolata. Io direi, come primo punto, è importante anche nella vita di pastori della Chiesa, nella vita quotidiana del sacerdote, conservare, per quanto è possibile, un certo ordine: che non manchi mai la Messa - senza l’Eucaristia un giorno è incompleto e perciò cresciamo già nel Seminario con questa liturgia quotidiana; mi sembra molto importante che sentiamo il bisogno di essere col Signore nell’Eucaristia, che non sia un dovere professionale ma sia realmente un dovere sentito interiormente, che non manchi mai l’Eucaristia.
L’altro punto importante è prendersi il tempo per la Liturgia delle Ore e così per questa libertà interiore: con tutti i pesi che ci sono, essa ci libera e ci aiuta anche ad essere più aperti e a stare in un contatto profondo col Signore. Naturalmente dobbiamo fare tutto quello che impone la vita pastorale, la vita di un vice-parroco, di un parroco o delle altre mansioni sacerdotali. Ma, direi, non dimenticare mai questi punti fissi, che sono l’Eucaristia e la Liturgia delle Ore, così da avere nel giorno un certo ordine che, come avevo detto inizialmente, non devo inventare sempre di nuovo “Serva ordinem et ordo servabit te”, abbiamo imparato. E’ una parola vera.
Poi è importante non perdere la comunione con gli altri sacerdoti, con i compagni di via e non perdere il contatto personale con la Parola di Dio, la meditazione. Come fare? Io ho una ricetta abbastanza semplice: combinare la preparazione dell’omelia domenicale con la meditazione personale, per far si che queste parole non siano dette solo agli altri, ma siano realmente parole dette dal Signore a me stesso, e maturate in un colloquio personale col Signore. Perché ciò sia possibile, il mio consiglio è di cominciare già il lunedì, perché se si comincia al sabato è troppo tardi, la preparazione viene affrettata, e forse l’ispirazione manca, perché ci sono altre cose nella testa. Perciò, direi, già il lunedì, leggere semplicemente le letture della prossima domenica che forse appaiono molto inaccessibili. Un po’ come quelle pietre di Massa e Meriba, dove Mosè dice: “Ma come può venire acqua da queste pietre?”.
Lasciamo stare, lasciamo che il cuore le digerisca, queste letture; nel subcosciente le parole lavorano e ogni giorno un po’ ritornano. Ovviamente si dovranno anche consultare dei libri, per quanto è possibile. E con questo lavorìo interiore, giorno per giorno, si vede come man mano matura una risposta; man mano si apre questa parola, diventa parola per me. E poiché sono un contemporaneo, essa diventa una parola anche per gli altri. Posso poi cominciare a tradurre quanto io forse vedo nel mio linguaggio teologico nel linguaggio degli altri; il pensiero fondamentale resta tuttavia lo stesso per gli altri e per me.
Così si può avere un incontro permanente, silenzioso, con la Parola, che non esige molto tempo, che forse non abbiamo. Ma riservate un po’ di tempo: così matura non solo un’omelia per la domenica, per gli altri, ma il mio proprio cuore viene toccato dalla Parola del Signore. Rimango in contatto anche in una situazione dove forse il tempo a disposizione è poco.
Non oserei adesso dare troppi consigli, perché la vita nella grande città di Roma è un po’ diversa da quella che io ho vissuto cinquantacinque anni fa nella nostra Baviera. Ma penso che l’essenziale è proprio questo: Eucaristia, Ufficio delle Letture, preghiera e colloquio, anche se breve, ogni giorno, col Signore, sulle sue Parole che io devo annunciare. E non perdere mai, da una parte, l’amicizia con i sacerdoti, l’ascolto della voce della Chiesa viva e, naturalmente, e la disponibilità per la gente affidatami, perché proprio da questa gente, con le sue sofferenze, le sue esperienze di fede, i suoi dubbi e difficoltà, possiamo anche noi imparare, cercare e trovare Dio. Trovare il nostro Signore Gesù Cristo.
 
papa Benedetto XVI
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