Quel parroco non è certo il don Camillo di Guareschi: anche se con il leggendario curato condivide la strenua difesa della fede nella bassa padana. E forse non potrà nemmeno vantare trascorsi agonistici di meritevole citazione.
del 24 agosto 2010
 
            Quel parroco non è certo il don Camillo di Guareschi: anche se con il leggendario curato condivide la strenua difesa della fede nella bassa padana. E forse non potrà nemmeno vantare trascorsi agonistici di meritevole citazione.
 
 
            Ma certamente gli va tributata una sua filosofia sportiva da emulare: siccome per troppe bestemmie s'appesantisce lo spirito e si viola il decalogo che ivi regge, la squadra di calcio se ne vada altrove ad adorare il dio-pallone. Lì dentro, all'ombra del campanile per anni emblema degli allenamenti, si adora un altro Dio, che chiede di non nominare invano il Suo nome: nemmeno in caso di un goal al novantesimo o come inno creativo di ultras giovani e meno giovani.
            In un'era in cui le religioni e gli uomini fanno del proselitismo il nuovo vessillo di crociata e l'ecumenismo che unisce veramente è ancora lungi dal tenere i lineamenti raccomandati nei Vangeli, il gesto di questo parroco dall'anagrafe comune rimane da imitare: perchè nessuna legge economica vale l'eleganza di creare un ambiente che sia non solo laboratorio dei muscoli ma anche palestra del cuore. E ogni buon educatore-allenatore dovrebbe serbare nella memoria il motore 'a due tempi' dei suoi atleti: il fisico e l'anima.
            L'uno sganciato dall'altro produce solo dei mostri da laboratorio, incapaci di quell'eleganza che fa di un campione un credibile testimonial per il mondo dei giovani. Anche i reality-show per una bestemmia cacciano un concorrente: perchè non dovrebbe farlo la parrocchia, certamente dopo aver usato quella pedagogica medicina che chiede di ammonire nel segreto, poi a gruppetti e poi in pubblico?
            Studio Aperto ha raccolto ieri le ire delle madri-procuratrici infuriate per i loro possibili Totti e Del Piero cacciati dal curato (come sono prevedibili le mamme): adesso minacceranno addirittura ritorsioni, qualcuno sporgerà querela o, molto più possibile, si limiteranno a scarabocchiare scritte qua e là contro la chiesa di paese: confondendo il sagrato con la tribuna vip. Per loro il parroco è bigotto e moralista.
            Ammesso che siano sue fedeli per poter essere credibili nelle esternazioni, rimane da far capire loro che quella fede che la domenica, coscienti o meno, si professa ad alta voce non è un qualcosa che basti recitare come si usa fare contro l'arbitro, la tifoseria avversaria o il guardialinee, ma è una scelta di vita che chiede di tradursi in gesti concreti che interrompano la mediocrità del secolo. Perchè se l'uomo di fede non disturba più nessuno, allora significa che il suo messaggio è vuoto.
            Ma se è un messaggio vuoto allora sarà destinato a scomparire presto. Quel parroco, invece, è certo che il messaggio che predica non è un puro esercizio di letteratura sacra, ma la professione della fede in un Dio Salvatore. Sembra scontato che almeno nell'ambiente a lui familiare - qual'è ancora la parrocchia e i suoi ambienti circostanti - possa tentare in tutto ciò che gli compete di tradurre ciò che professa in quello che compie.
            D'altronde nessuno accetterebbe nel centro sportivo di Trigoria (tempio pagano della Roma Calcio) che un giocatore, magari ospite per un provino, s'allenasse snocciolando il nome di Totti-De Rossi-Mexes abbinato agli animali della fattoria: tutto lo stadio esploderebbe in un urlo degno della migliore affiliazione sportiva. Rimane da dimostrare perchè più si bestemmia più il parroco dovrebbe starsene zitto e soddisfatto per l'affitto ricevuto: non tutti sono capaci di tale sopportazione.
            Sappiamo tutti che non sarà lo sport a salvare il mondo: a quello ci pensa la bellezza di Dostojevskj. Ma rimane la convinzione che un campione è fatto di muscoli e di stile. E per entrambi esiste il cartellino: prima giallo e poi rosso.
don Marco Pozza
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