Consideriamo, dunque, assolutamente veritiero il detto di Ovidio, spesso citato: «Vedo e approvo le cose migliori, ma seguo quelle peggiori».
del 08 marzo 2010
          Come sappiamo tutti, i due uomini che hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione della cultura europea, Gesù e Socrate, non hanno mai scritto una riga; li conosciamo entrambi solo da quanto riferito da altri. Le fonti per la conoscenza di Socrate sono, naturalmente, i dialoghi di Platone e, in misura minore, gli scritti di Senofonte; ancora oggi non si cessa di dibattere su che cosa Socrate pensasse effettivamente e che cosa invece gli abbia messo in bocca Platone.
         
          Non saprei inserirmi in questo dibattito, vorrei solo sollevare una questione che appare nei primi dialoghi, quelli che, più verosimilmente, tramandano il pensiero di Socrate.
          Socrate l’Ateniese non è il primo dei grandi spiriti che conosciamo, ma è stato forse il più grande architetto della cultura europea, apparendo tale anche agli occhi di chi non condivide per nulla la sua filosofia. Se è il nostro maestro, il maestro dell’Europa, non lo è tanto per una particolare dottrina da lui enunciata, quanto piuttosto per il metodo con cui aspirava a scoprire la verità. Ma quale verità? Da giovane si applicava allo studio della natura, ma poi abbandonò queste indagini, ritenendo che ci si dovesse occupare di ciò che è immutabile e non della realtà fisica, in cui tutto si trasforma e alla fine muore. E che cosa è immutabile? Immutabili sono le idee fondamentali, soprattutto quelle che hanno un significato morale.
          Voleva sapere che cosa fossero la giustizia o la virtù, il coraggio, l’uguaglianza; quello che gl’interessava non era come queste parole fossero usate comunemente dagli uomini, bensì che cosa fossero in se stesse, che cosa fossero davvero realtà come la giustizia o l’uguaglianza. Come perveniamo a tali verità? Ponendo incessanti, martellanti e perentorie domande. Filosofo che vaga per la strada, Socrate interrogava i suoi interlocutori costringendoli a spingersi sempre oltre, addentrandosi più profondamente in queste domande.
          Talvolta ci pare che Socrate si limiti a fingere di non sapere, di non conoscere la risposta (è sua l’asserzione «so di non sapere nulla»), in tal modo obbligando l’interlocutore al dialogo perché giunga da solo a una verità o corregga proprie convinzioni poco intelligenti. Voleva essere una levatrice, come sua madre, voleva portare allo scoperto una verità che era già esistente, ma ancora non pervenuta alla coscienza. Non ambiva ad essere originale (nessuno dei grandi filosofi coltivava tale ambizione, che lo avrebbe emarginato dalla cultura), ma solo a cogliere la verità e a capire come servire il bene, perché gli interessava sempre una verità che aiutasse la vita.
          Viveva in accordo col proprio insegnamento: conduceva un’esistenza ascetica, ci raccomandava di non curarci dei beni terreni e dei piaceri del corpo, e non se ne curava egli stesso; a differenza dei sofisti, non riceveva denaro per il suo insegnamento, viveva in povertà senza lamentarsi; era valoroso nel fronteggiare i nemici, in guerra o negli scontri verbali.
          L’oracolo di Delfi decretò che non v’era alcun uomo più sapiente di Socrate, e lui stesso non mancò dì ricordarlo nel suo discorso in tribunale, sapendo per certo che queste parole lo avrebbero compromesso ancora di più agli occhi dei giudici, come pure l’affermazione di essere stato mandato da Dio ad Atene per essere come un tafano che col suo pungiglione stimola un cavallo pigro a muoversi. Diceva anche di ascoltare un 'demone', una voce interiore che lo distoglieva dal male. Che cosa fosse questo daimonion non lo sappiamo, ma possiamo immaginare che non si trattasse di una sua 'creatura' (in questo caso non avrebbe potuto essere un’autorità), bensì di una forza morale di origine divina.
          Se però Socrate pensava di riuscire con le sue domande a condurre alla verità gli ascoltatori, era perché credeva che la verità fosse già dentro di noi, anche se il più delle volte inconsapevole, avendola mutuata dalla nostra precedente incarnazione; per questo, non impariamo veramente, ma semplicemente ricordiamo una conoscenza dimenticata. Per conoscere tutto ciò che è importante abbiamo la Ragione, che ci consente di distinguere il male dal bene. Nietzsche odiava Socrate proprio per il fatto che questi venerava la Ragione, identificava la Ragione con la virtù e la virtù con la felicità e l’utile, il vero utile, quello che vivifica le anime.
          Nietzsche affermava che gli spiriti veramente grandi, nobili eletti del destino, agivano in base all’istinto, mentre la Ragione socratica, fredda e sicura di sé, che si opponeva agli istinti, era segno di decadenza; in qualche modo Socrate aveva condotto lo spirito greco al declino, era il sintomo di una vecchia cultura aristocratica (e Platone con lui); è anche possibile che Socrate non fosse nemmeno greco: sappiamo infatti che era brutto, e, secondo Nietzsche, la bruttezza era un sintomo di corruzione tipico dei mezzosangue; brutto di viso, brutto nell’anima, secondo l’adagio antico.
          Così il migliore degli uomini, condannato a morte a causa della Ragione, avrebbe avuto in sé il germe della decadenza spirituale. Ed ecco l’interrogativo che sorge da questo culto della Ragione. Socrate sostiene che sia impossibile che io faccia di mia spontanea volontà qualcosa che so essere cattivo; se faccio il male, ciò è il risultato della mia ignoranza; se so che cosa è buono, faccio il bene. Questo pensiero ci può sembrare assolutamente improbabile, perché siamo piuttosto inclini a ritenere che spesso facciamo il male poiché siamo dominati dalle passioni (odio, amore, invidia, cupidigia, desiderio, superbia, brama di potere) e sappiamo che cosa è bene e che cosa è male, ma, come si suol dire, non riusciamo a contrastare i nostri impulsi.
          Consideriamo, dunque, assolutamente veritiero il detto di Ovidio, spesso citato: «Vedo e approvo le cose migliori, ma seguo quelle peggiori»; allo stesso modo, approviamo la conclusione dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, laddove dice che, in quanto uomo di carne, venduto come schiavo del peccato, non compie il bene che vuole, bensì il male che non vuole, ben sapendo, tuttavia, che cosa gli ordina la legge divina. Ciò pare conforme al buon senso, ma fermiamoci un attimo a riflettere se forse Socrate non abbia ragione, almeno un po’, quando afferma che il male che compiamo è causato dalla nostra ignoranza; la nostra manchevole Ragione non riesce a distinguere il male dal bene; ma chiediamoci anche se, in tal caso, non ne conseguirebbe che siamo innocenti, qualunque cosa facciamo.
Leszek Kolakowski
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