Studiano i preti? Nella mia abbastanza lunga vita sacerdotale, non ho incontrato molti fratelli che riservassero allo studio un tempo adeguato. Eppure lo studio è una necessità che nasce dal silenzio, di cui è come una prosecuzione.
del 12 febbraio 2010
 
           Studiano i preti? Nella mia abbastanza lunga vita sacerdotale, non ho incontrato molti fratelli che riservassero allo studio un tempo adeguato. Eppure lo studio è una necessità che nasce dal silenzio, di cui è come una prosecuzione. Perché studiare quando non ci sono più esami da dare, traguardi da raggiungere, quando premono attività e necessità, quando le persone esigono da noi il nostro tempo?
 
           Non è forse lo studio un’assenza di carità, che ci sottrae alle ferite urgenti delle persone? La risposta non può che essere negativa. Senza prolungare il silenzio nello studio, a poco a poco si inaridisce in noi la consapevolezza di ciò che ci è accaduto.
           Contrariamente a quanto molti credono, persino nelle origini francescane, quando alcuni frati contrapponevano allo studio umiltà e povertà, veniva risposto autorevolmente che senza lo studio non ci si può cibare della Parola di Dio, e quindi non si può vivere la vita religiosa. Le parole si faranno ripetitive ed aride, e infine diventeremo dei preti insignificanti. Se vogliamo conoscere Dio e noi stessi, dobbiamo anche studiare. Lo studio è un lavoro che ci permette di penetrare nella nostra vita, di assimilare quella scienza di Cristo e quella scienza dell’uomo che costituiscono il livello per noi più alto e più interessante della conoscenza.
           Jean Leclercq, grande studioso di san Bernardo, ha scritto un libro in cui riassume tutta la sapienza monastica fatta di studio e di preghiera, oltre che di lavoro manuale, e lo ha significativamente intitolato: L’amour des lettres et le désir de Dieu. Lo studio non parte dal nulla, ma da qualcosa che ci è accaduto. Per noi sacerdoti, lo studio è un approfondimento della fede. Ricordiamo la formula usata da sant’Anselmo, che in realtà riprende tutta la tradizione agostiniana: «Fides quaerens intellectum».
           Non dobbiamo pensare che mettere la fede all’origine dello studio immiserisca o rattrappisca la nostra ricerca razionale. La fede non è un bagaglio di nozioni, è innanzitutto un incontro, l’incontro con colui che è «il centro del cosmo e della storia». Lo studio è dunque un rapporto con cose e persone che non abbiamo ancora conosciuto o abbiamo conosciuto male. Con il presente, con il passato, con le grandi voci della storia, con coloro che possono farci crescere. «Siamo come nani sulle spalle di giganti», e quindi possiamo vedere più lontano di coloro che ci hanno preceduto. È la straordinaria espressione di Giovanni di Salisbury.
           Lo studio implica una lunga e paziente stratificazione di conoscenze, e anche alcune scelte a riguardo delle priorità delle proprie occupazioni. Dobbiamo rivolgerci a libri che ci aiutino ad una familiarità con la Sacra Scrittura, che ci diano il gusto della storia di Dio, alle opere di studiosi che, senza essere chiusi alle ricerche più recenti, siano attenti alla tradizione e all’insegnamento della Chiesa. Voglio soffermarmi sull’importanza della lettura dei classici.
           Penso a Omero, Virgilio, Cicerone, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso…, fino ai tempi a noi più vicini. I classici sono gli scrittori attuali in ogni epoca della storia, che hanno saputo essere maestri di ogni tempo. Proprio grazie alla loro capacità di cogliere ciò che è veramente essenziale alla vita di ogni uomo, essi non si arrestano alla superficie dell’essere, ma sanno introdurci nel cuore pulsante della vita e dell’umanità di Dio. Tra i classici, occupano un posto di particolare importanza i Padri della Chiesa. Essi ci accompagnano in quella visione unitaria della Scrittura che oggi si è decisamente persa. Più si va avanti negli anni, più la storia della Chiesa si arricchisce di nuovi volti e protagonisti, più ci si rende conto che il loro insegnamento rimane insostituibile.
           In vista dell’omelia domenicale, occorrono una preparazione lontana e una vicina. Quella lontana è lo studio, la meditazione che non si interrompe mai lungo l’arco degli anni. Quella vicina si compie prendendo in considerazione i testi specifici della liturgia di quel giorno e domandandoci che cosa essi ci vogliano comunicare.
           San Paolo dice che la fede nasce dall’ascolto (Rm 10,17), cioè dalla meditazione. Mentre i Greci privilegiavano il vedere, la tradizione giudaico-cristiana privilegia l’ascolto. È l’udire il fondamentale rapporto tra maestro, testimone e discepolo. Per parlare agli uomini, Dio si è fatto uomo, ha scelto la strada del rapporto personale, ha deciso di parlare cuore a cuore, di diventare realtà sperimentabile per gli uomini di ogni tempo. Poiché la fede è un avvenimento, non è mai possibile evitare questa dinamica. Preparare l’omelia vuol dire, innanzitutto, chiedersi: qual è l’esperienza che voglio trasmettere?
           Nella sua Lettera settima, Platone sosteneva che le cose importanti devono essere affidate al dialogo orale. E Søren Kierkegaard, ne La scuola di cristianesimo, ha detto che esso non può vivere se non come provocazione di un Principio che arriva al presente attraverso l’esistenza di un vicino. Cicerone non avrebbe avuto su sant’Agostino e san Bernardo l’influenza che ebbe, se non fosse stato conosciuto innanzitutto come maestro di retorica.
           E Agostino si convertì ascoltando le omelie di Ambrogio. La comunicazione diretta fu l’arma di san Domenico, che fondò addirittura l’ordine dei predicatori, e di san Francesco, che andò di persona a parlare al sultano. Anche l’età moderna è stata segnata dalla predicazione: che cosa sarebbe stato il cristianesimo fra il Quattrocento e il Seicento senza Savonarola, Bernardino da Siena, Francesco Saverio e Bossuet? Tutti siamo ancora impressionati dalla capacità comunicativa di Giovanni Paolo II e di don Giussani.
           Non dimentichiamo che ex abundantia cordis os loquitur (Mt 12,34): la parola rivela quello che c’è o non c’è dentro di noi. Non si può comunicare se non per una sovrabbondanza di esperienza. Essa determinerà il tono delle mie parole, i gesti che le accompagneranno, l’ordine dell’esposizione. Prima di parlare occorre scegliere cosa dire, cosa privilegiare. Avere chiaro qual è il punto centrale che deve passare da me ai miei ascoltatori. Questo implica anche decidere cosa non dire o cosa comunicare in un’altra occasione. Non tutto infatti può e deve essere detto: un’omelia non è una lezione di scuola. Bisogna imparare a non dire, per dare rilievo a ciò che si dice.
           Concretamente, suggerisco di annunciare il tema all’inizio, per esempio sottolineando una frase del testo che si vuole commentare. Svilupparlo poi con degli esempi. È molto importante l’enfasi su frasi e parole che possano essere ricordate. Infine, una conclusione: un riassunto oppure una domanda, un rinvio ad altro per far proseguire la riflessione. C’è una sola strada per imparare a comunicare: cominciare ad ascoltare, ascoltare chi ci colpisce. E poi correre il rischio di esprimere ciò che si è incontrato e urge dentro di noi perché vuole essere comunicato.
Massimo Camisasca
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