Nell'attuale rincorsa a introdurre, a scadenze regolari, vecchie e nuove occasioni di “festa” ‚Äì ma sarebbe più appropriato dire “opportunità di consumo” ‚Äì il Natale conserva la sua peculiarità di ricorrenza cristiana maggiormente sentita anche da chi cristiano non è. Non c'è da stupirsi allora se alcuni, forse troppi, elementi che ormai caratterizzano il Natale nella nostra società abbiano ben poco a che fare con il significato cristiano della festa.
del 01 gennaio 2002
Del resto, lo stesso Natale cristiano ebbe origine dall’appropriazione da parte del cristianesimo, divenuto religione dell’impero, della festa pagana del “Sole invitto” che si celebrava a Roma: era la festa civile che affermava la rinascita della luce al cuore dell’inverno, il lento ma irreversibile trionfo del sole sulle tenebre che sembravano averlo sconfitto. La chiesa, uscita dalle catacombe e dalle persecuzioni, cominciò a pensare che quella ricorrenza fosse il momento più indicato per annunciare a una società pagana la novità del Vangelo di Gesù Cristo: una realtà piccola, quasi insignificante, un evento quotidiano – come il sole che anticipa di qualche minuto la sua levata o come un neonato che fa ricchi di gioia anche i genitori più poveri – può essere il segno della speranza che rinasce, dell’orizzonte che si illumina e riscalda per sciogliere la cappa di piombo del cielo chiuso sulle vicende degli uomini.
“Dio si è fatto uomo, uno della nostra stessa pasta”. Così, con un’espressione efficace nella sua concretezza, Ippolito di Roma già nel iii secolo aveva tentato di spiegare la portata dell’incarnazione: forse sta proprio in questo semplice inizio di una vita di uomo sulla terra il segreto dell’universalità del Natale. Un messaggio semplice, alla portata di tutti, a cominciare dai poveri pastori di Betlemme, così come semplice sarà anche la vita di quel figlio d’uomo appena nato: passerà in mezzo agli altri uomini facendo il bene, parlerà un linguaggio capace di andare al cuore dei semplici, vivrà nella frugalità, nella solidarietà e nell’amicizia propria dei piccoli. E anche ogni volta che renderà manifesto il miracolo – la ritrovata comunione con Dio e con gli altri – lo farà servendosi di segni e prodigi legati ai bisogni essenziali dell’uomo: il pane e il vino moltiplicati, la salute ridata, la natura nuovamente riconciliata con l’uomo, la fraternità ristabilita, la vita riaffermata come più forte della morte. E proprio grazie a questa quotidianità del bene, un bene troppo grande perché i beneficiari potessero attribuirlo solo a lui, alcuni lo riconosceranno come il Figlio di Dio.
A Natale i cristiani celebrano una realtà già avvenuta – la discesa di Dio nella carne di Gesù, figlio di un’umile coppia di Nazaret – come pegno di quanto ancora attendono: che Dio sia in tutta l’umanità e che l’umanità trovi la sua pienezza in Dio. Ma, se questo è il fondamento della gioia che abita i credenti in questa festa, allora essa non può essere soggetta ad alcuna “esclusiva”: è gioia “per tutto il popolo”, per l’intera umanità destinataria ultima dell’amore di Dio. I cristiani non possono impadronirsi del Natale sottraendolo agli altri, non possono imprigionare la speranza che è anelito del cuore di tutti: al contrario dovrebbero tutto predisporre affinché anche per gli uomini e le donne in mezzo ai quali vivono e con i quali condividono pienamente la condizione diventi comprensibile e tangibile l’evento che non ha tanto cambiato il corso della storia, quanto ridato alla storia un senso. Per i cristiani si tratta di stare nel mondo con la stessa gioia con cui Dio è venuto in mezzo agli uomini nel Figlio, l’Emmanuele, il Dio-con-noi che non può e non deve mai diventare il Dio-contro-gli-altri.
Ma ha ancora senso oggi parlare di un Natale di gioia? Possiamo farlo in una società in cui la preoccupazione di chi non trova più un posto libero per le vacanze si affianca a quella di chi ha perso il posto di lavoro? Possiamo farlo in un mondo in cui c’è chi prepara cibi e bevande per un banchetto di festa e chi ammassa armi e truppe per un’offensiva di morte? Possiamo farlo quando ci sono persone che per libertà intendono l’imbarazzo della scelta tra infinite opportunità e altre che non sono libere nemmeno di esistere e di esprimere i loro sentimenti?
Forse non “possiamo”, ma dobbiamo farlo, perché è una gioia a caro prezzo quella che il Natale ci invita a vivere: non la gioia momentanea di qualche luminaria, di un pranzo con la famiglia e gli amici, di un regalo che riesce ancora a stupire, ma la gioia sofferta di chi è consapevole che la speranza o è per tutti oppure è mortificata, di chi sa che la pace non è il deserto che si crea dopo la guerra ma verità, giustizia, perdono, amore, libertà... Allora il Natale non sarà solo una festa di pochi che chiudono gli occhi sul dolore di molti, ma la “celebrazione” di un’attesa ben più vasta di ogni recinto privilegiato: sarà il barlume di una speranza che lenisce le sofferenze e le angosce di tanti uomini e donne, sarà il pegno di una vita più umana, una vita impregnata di relazioni autentiche e di rispetto dell’altro, una vita ricca di senso, capace di esprimere in gesti e parole la bellezza e la luce, echi di quella luce che brillò nel buio di Betlemme e che deve brillare anche oggi in ogni luogo avvolto dalle tenebre del dolore e del non-senso.
Enzo Bianchi - da 'L’Unità del 24 dicembre 2002'
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