Mentre il bello presenta un carattere pacatamente contemplativo, il sublime apre alla dimensione della sofferenza, di un conflitto, nel quale la ragione subordina a sé la sensibilità.
Che cos'è il sublime?
Il concetto di sublime è antico e si può far risalire, almeno, al famoso trattato Del sublime per secoli attribuito erroneamente al retore greco Cassio Longino (III sec. d.C.), ma opera invece di un anonimo del I sec. d. C.; errore pervicace, se l'opera è tutt'ora attribuita allo Pseudo Longino (1). L'autore caratterizza il sublime in rapporto al fruitore dell'opera artistica; esso consiste essenzialmente in un effetto di "esaltazione" di un animo nobile di fronte alla bellezza evocata da un testo poetico o teatrale; nel leggere una pagina di Omero o nell'ascoltare una tragedia di Sofocle, l'uomo si sente innalzato, capace di abbracciare l'universo intero. Celebre la definizione che apre il capitolo IX: "Il sublime è l'eco di un alto sentire" (megalophrosyne). L'esempio fornito dal cap. X, tratto dall'Iliade, risulta oltre modo suggestivo:
(Ettore) si precipitò, come quando l'onda piomba sulla rapida nave, impetuosa, nutrita dalle nubi e dai venti; e quella tutta intera vien coperta di schiuma. Potente il soffio del vento preme dentro la vela; tremano i naviganti nel cuore presi dall'angoscia; un nulla manca che proprio dalla morte siano portati via.
Commenta Longino. "il Poeta… non limita la spaventosa situazione a un solo istante, anzi, ci rappresenta i marinai che sempre, e quasi ad ogni ondata, si trovano più volte sul punto di morire. E costringendo contro natura e forzando al connubio proposizioni non combinabili tra loro 'proprio dalla morte', da un lato ha messo alla prova il verso in modo analogo alle sofferenze che si abbattono tra di loro; d'altro canto, con la compressione di una parola, egli ha rappresentato la sofferenza in modo superlativo, e ha impresso quasi nel discorso i tratti caratteristici del rischio: 'proprio dalla morte siano portati via' " (X. 6). Opportunamente, l'edizione Rizzoli del trattato di Longino, pone in copertina la famosa tela di Gericault, La zattera della Medusa, composta nel 1818, sulla scia di un tragico episodio realmente accaduto. L'eco di questa vicenda è giunta fino ad Alessandro Baricco, in uno degli episodi di Oceano mare (2). Ma più profonde ancora sono le suggestioni che ci vengono dalla citazione omerica di Longino: ricordiamo almeno l'invito che Dante, attraverso Virgilio, rivolge a Ulisse, nel XXVI canto dell'Inferno, perché "dica/ dove per lui perduto a morir gissi", con l'evocazione della bruna montagna del Purgatorio, che pose fine al suo "folle volo"; fra i moderni, è d'obbligo riandare alle ultime, celebri pagine di Le avventure di Arthur Gordon Pym, l'unico romanzo di E. A. Poe e al Moby Dick di Melville.
È interessante notare che il termine "sublime", fin dalla sua etimologia, nasconde un duplice significato. La parola latina sublimen sembra derivare o da "sub-limen", nel senso di altissimo, che sta sotto l'architrave della porta, oppure da "sub-limo", "sotto il fango", ad indicare l'abisso nascosto sotto uno strato di bruttezza.
Come si sa, il concetto ebbe larga fortuna a partire dal Seicento per toccare l'apice dell'interesse in età romantica. Nel Barocco, tuttavia, si produce un singolare slittamento semantico, dovuto alle conseguenze culturali e antropologiche delle grandi conquiste scientifiche, in primo luogo della rivoluzione copernicana. Chiosa opportunamente Remo Bodei: "Gran parte dell'estetica barocca e protoromantica è, in effetti, un'estetica della sproporzione, della dismisura, della disarmonia" (3). L'uomo non è più al centro dell'universo e si trova disorientato nella vastità degli spazi infiniti e incomprensibili: "Maledetto sia Copernico", esploderà il protagonista de Il fu Mattia Pascal: l'uomo è sorpreso su "un'invisibile trottolina" che gira e gira "senza sapere perché", incapace di pervenire a un destino. Copernico ci ha messo davanti la "nostra infinita piccolezza", avverte Pirandello, tanto che le nostre, ormai, sono storie di "vermucci". "Finisce il criterio antico dello Pseudo Longino: non sono io che posso abbracciare l'universo, è l'universo che mi abbraccia e mi riduce a essere infinitesimo" (4). La riflessione storico-filosofica sul sublime nell'età moderna: da Burke a Kant ai Romantici
Nella riflessione filosofica del Settecento il bello comincia ad essere distinto chiaramente dal sublime; formalmente la distinzione, sempre sulla scia dello Pseudo Longino, risale al filosofo irlandese Edmund Burke, a metà del secolo XVIII, con la sua Inchiesta sul Bello e il Sublime (5), il quale approfondiva intuizioni maturate nella cultura inglese settecentesca. Era avvertita la necessità di rivalutare ampie zone della percezione estetica che una nozione asfittica del "bello", segnata dalla contaminazione arcadica, aveva pericolosamente ridotto, fino a farlo coincidere con il "grazioso": era tutta la sfera del turbamento, della bellezza che attrae e che al contempo ferisce, dello spaventevole, che andava recuperata, grazie anche alla lezione di Vico. "La riscoperta del sublime in età moderna segna l'inizio dello sforzo teso a recuperare quel 'brutto' che il bello ufficiale -divenendo grazioso e non più perturbante- ha finito per espungere da sé. Per suo tramite ottengono infatti pieno diritto di cittadinanza l'amorfo, il disarmonico, l'asimmetrico e l'indefinito" (6).
Come è facile rilevare, è questa una concezione che spalanca prospettive ricchissime per l'arte moderna. Burke si collocava tempestivamente in un crocevia culturale segnato dal tramonto del classicismo e alle prime manifestazioni della sensibilità romantica. "All'imitazione e alle regole si contrappongono l'ispirazione e il genio, alla ragione 'prosaica' lo slancio che rapisce della poesia" (7). Specifico del sublime diventa ciò che ci attrae incutendoci paura, qualcosa che s'impone e ci sgomenta. Qui il filosofo irlandese innova rispetto a Longino attraverso l'enfasi posta sul terrore: "Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire" (8). Il bello è legato all'armonia e alla misura; il sublime è il sentimento doloroso prodotto da qualcosa di non controllabile né misurabile, un "non so che". Il bello verrà così avvicinato all'eros, all'amore inteso però nel suo significato di languore, mentre il sublime andrà a costituire il polo opposto di thanatos, nella sua accezione di tensione. Avvertiamo dietro queste parole il preannuncio della nuova sensibilità romantica, in particolare il genere della poesia sepolcrale e notturna, da Gray a Young, alla moda ossianesca, che tanta fortuna avrà nella letteratura europea. Nella letteratura italiana sarà il "forte sentire", di cui parleranno i nostri Alfieri e Foscolo: come non ricordare, nell'Ortis, la descrizione del torrente Roja nella famosa "Lettera da Ventimiglia"? Il sublime andrà poi a contaminarsi col pittoresco (concetto posto dal teorico inglese settecentesco Cozens come fondamento di una poetica del paesaggio), introducendo nella letteratura e nella pittura il gusto delle rovine, dei capricci; siamo ai paesaggi di Piranesi e di F. Guardi, ai mari in tempesta di Turner, fino ad arrivare al più grande dei pittori romantici, C.D. Friedrich e alle sue tele dell'assoluto e dello sgomento. Burke collega il sublime alla sofferenza, alle idee di dolore, malattie, morte; emozioni fortissime, in quanto attengono alla sopravvivenza stessa del soggetto (self-preservation). Come afferma Rilke, questa sensazione "è solo l'inizio del tremendo, che noi sopportiamo ancora ammirati" (9). Nota ancora Giuseppe Sertoli, presentando l'Inchiesta di Burke: "il sublime terrorizza perché evoca una minaccia alla conservazione del soggetto, ma nello stesso tempo diletta perché è posto sufficientemente lontano da non costituire un effettivo pericolo" (10). Il fascino del sublime si era così diffuso che i viaggiatori inglesi del Sette-Ottocento andavano a visitare le eruzioni del Vesuvio rimanendo a una distanza, non facilmente identificabile, tra la sicurezza e il brivido del pericolo. Come non pensare a certi giochi estremi dei nostri giorni, peraltro privi di ogni risonanza culturale, spesso conclusi in tragedia?
Poi toccherà ovviamente a Kant, nella sua Critica del Giudizio, fondare aprioristicamente la categoria del sublime. Per il filosofo di Konigsberg la fonte del sublime sta nel conflitto tra sensibilità e ragione ed è quindi tutta interna al soggetto. Il sublime, analogamente al bello, è un piacere disinteressato, ma mentre il bello presenta un carattere pacatamente contemplativo, il sublime apre alla dimensione della sofferenza, di un conflitto, nel quale la ragione subordina a sé la sensibilità. Nel sublime facciamo esperienza dell'indeterminatezza e quindi dell'incomprensibile, dato che la comprensione può avvenire solo davanti a un oggetto determinato. Per Kant, com'è universalmente noto, esistono due forme di sublime (das Ehrabene): "la legge morale in me e il cielo stellato sopra di me". Vuol dire che tra ragione e immaginazione si crea un rapporto conflittuale: io cerco di capire le idee, la libertà morale o il mio posto nel mondo, ma non riesco a rappresentarle in modo preciso. In questo modo, il sublime è in grado di produrre quello choc che il bello non riesce più a trasmettere, "perché ha dimenticato la dimensione 'verticale', l''altezza' dell'animo umano, la passione e la profondità" (11). Così si pone la distinzione tra "sublime matematico" e "sublime dinamico": il primo è legato alla grandezza, all'immensità dell'universo, a tutto ciò che "è grande al di là di ogni comparazione", "ciò al cui confronto ogni cosa è piccola". In questa accezione, sublime è "ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell'anima superiore a ogni misura dei sensi". È l'esempio, appunto, del cielo stellato. Di fronte a questo, c'è il sublime dinamico, legato invece al movimento, che ritroviamo nel sentimento dell'infinita potenza della natura, come nel caso dell'eruzione vulcanica (12).
Ma sarà la nuova sensibilità romantica a valorizzare e approfondire la sistemazione kantiana, a contrapporre il "bello ideale" dei Greci, fatto di felici proporzioni e di armoniche unità, alla temperie moderna, che percepisce una profonda disunione, una "doppia natura" nell'uomo che aspira a una impossibile riconciliazione, come si esprimerà il massimo teorico del Romanticismo tedesco, W.A. Schlegel, nel suo Corso di letteratura drammatica (prima traduzione italiana 1817). Dopo aver posto il cristianesimo come matrice dell'arte europea, Schlegel individua presso i Greci una concezione della natura umana che "bastava a sé stessa, non presentiva alcun voto, e si contentava d'aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire" (13); la religione cristiana, invece, conferma in noi "quella voce segreta la qual ne dice che noi aspiriamo a una felicità cui non si può conseguire in questo mondo, - che nessun oggetto caduco può mai riempire il voto del nostro cuore" (14). Per questo la poesia moderna è la poesia del desiderio: i Greci, infatti, scorgevano "l'ideale della natura umana nella felice proporzione delle facoltà e nel loro armonico accordo. I moderni all'incontro hanno il profondo sentimento d'una interna disunione, d'una doppia natura nell'uomo che rende questo ideale impossibile ad effettuarsi: la loro poesia aspira di continuo a conciliare, a unire profondamente i due mondi fra' quali ci sentiamo divisi, quello de' sensi e quello dell'anima…Non è dunque meraviglia che i Greci ne abbiano lasciato, in tutti i generi, de' modelli più finiti. Essi miravano a una perfezione determinata, e trovarono la soluzione del problema che s'aveano proposto: i moderni a rincontro, il cui pensiero si slancia verso l'infinito, non possono mai compiutamente satisfare sé stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d'imperfetto" (15). Sarà la nuova generazione dei poeti romantici, da Novalis a Tieck fino al grande Holderlin, a dare corpo a queste intuizioni, a cercare l'infinito, ma essendo condannati a trovare sempre cose finite, tanto che la nostra anima, come dirà ancora W.A. Schlegel, sembra "esigliata su la terra" e "sospira la sua patria" (16). Il sublime in letteratura. Tra ferita e sproporzione. Il caso Leopardi
Fin qui i tratti, essenzialissimi, del sublime. Osservando i documenti letterari romantico-decadenti, potremmo affermare che la rappresentazione del sublime prende due strade che si intersecano. La prima potremmo declinarla sotto il profilo della ferita. Nella narrativa europea, con la crisi salutare del decadentismo, questa concezione si affianca a quella della perdita del senso di vivere. Tale è la concezione che emerge, per esempio, in Belli e dannati di F.S. Fitzgerald (17). I personaggi di questo romanzo sono assediati dal Nulla: "non faccio nulla, perché non c'è nulla che meriti di essere fatto", afferma uno di essi. Ed ancora: "non c'è bellezza senza emozioni e non c'è emozione senza la sensazione che tutto passa, uomini, nomi, libri, case… destinati alla polvere, mortali". Eppure questi personaggi sono sempre alla ricerca, sempre in "attesa di un raggiante qualcosa". Fino all'apparizione della "bella signora", la bellissima Gloria, così descritta: "era abbagliante, accesa; un'angoscia, cogliere la sua bellezza in uno sguardo solo". Non diversamente si esprimeranno i personaggi di Thomas Mann nei Buddenbrook, scoprendo che la bellezza ci può ferire come un dolore: così Tony Buddenbrook davanti al mare di Travemunde, così soprattutto l'indimenticabile figura dell'adolescente Hanno, di fronte al Lohengrin wagneriano: "aveva sentito quanto male faccia la bellezza, quanto a fondo ci precipiti nella soggezione e nello sgomento nostalgico" (18); percezione ricorrente ancora ne La morte a Venezia, quando lo scrittore Gustav von Aschenbach sarà ferito dall'abbagliante splendore di Tadzio, il ragazzo polacco dall'agghiacciante, spietata bellezza.
La seconda strada può essere intesa sotto il profilo della Sproporzione: come si diceva, essa affonda le sue radici nel Barocco e nella nuova antropologia che si delinea: l'uomo non è più il centro dell'universo e come afferma Pascal nel Pensiero 206, "Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta". Come dimostrò Ungaretti, questa è la matrice dell'Infinito leopardiano; ma ancora più pertinente è il Pensiero 72, significativamente intitolato "Sproporzione dell'uomo". L'uomo è visto come "sperduto in questo remoto angolo della natura", chiuso in una "piccola cella". Prorompe il filosofo, riecheggiando il Salmo 8: "Che cos'è un uomo nell'infinito?" Considerando l'ampiezza dell'universo chi non sarà preso da stupore? Noi siamo sospesi "tra i due abissi dell'infinito e del nulla", tremiamo davanti "alla vista di quelle meraviglie", per cui mutiamo la nostra "curiosità in ammirazione"; l'uomo sarà così "disposto a contemplare in silenzio più che a investigarle con presunzione". Conclude Pascal: "Che cos'è in fondo l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall'abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l'infinito dal quale è inghiottito" (19). Parole che evocano la paradossale definizione del cardinale de Bérulle: "Che cos'è l'uomo? Un nulla capace di Dio" (20). Facile rinvenire gli echi del pensiero pascaliano nella letteratura italiana di primo Ottocento: dalla conclusione dell'Ortis ("Io non so né perché venni al mondo…") a numerosi passi dello Zibaldone leopardiano (si veda specialmente il numero 3171 del 12 agosto 1823, dove l'uomo "si confonde quasi col nulla"); l'uomo si trova come "smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza", ma la sua nobiltà, rinchiusa in così piccolo essere, sta nel fatto di poter "abbracciare e contenere col pensiero questa immensità". Ma ancora più illuminante per la sintonia con Pascal è il Pensiero LXVIII del Recanatese, intitolato "La noia". Celeberrimo l'incipit: "La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani". Dunque la noia è associata risolutamente al sublime. Tale binomio ricorre anche nello Zibaldone, dove l'autore afferma con decisione: "Poetico non sublime non si dà" (4492-3). La noia è avvertita come un sentimento d'insufficienza e di nullità, di vuoto: "la noia non è altro che la mancanza del piacere" dirà nello Zibaldone, tanto è vero che "è più dolce il guarir dai mali che il viver senza mali". "Ogni sentimento o pensiero poetico qualunque è, in qualche modo, sublime" e produce "un innalzamento dell'anima". Nel Pensiero LXVIII, Leopardi, pur negando le conclusioni cristiane di Pascal, afferma che "tutto è poco" per il cuore dell'uomo, scoprendo che il "desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo".
A livello poetico, L'infinito rappresenta perfettamente la dinamica del sublime: la vista è limitata dalla siepe, ma c'è un "buio oltre la siepe", che mi sfugge, che costringe l'immaginazione a inseguire questo al di là. Allora il poeta si "finge" questo scenario nel pensiero, ed arriva ad un punto "ove per poco il cor non si spaura". Questa è esattamente la caratteristica del sublime: non è la paura allo stato puro, ma è il confine, il limite tra ragione e immaginazione. E il naufragare, "dolce in questo mare", dipende dall'impossibilità di rappresentare in forme sensibili questa potenza infinita della natura; alla fine l'uomo è in uno stato di snervata felicità, in quanto "sbalzato dalla percezione all'immaginazione, dalla ragione che cerca di fissare le cose all'immaginazione" che cambia continuamente e distrugge tutte le costruzioni umane, come nota ancora Remo Bodei (21). Leopardi ha vissuto in modo altissimo e drammatico la sproporzione dell'uomo di fronte alla realtà; egli chiama il contenuto di tale sproporzione la sublimità del sentire: questa sproporzione, tuttavia, non è anzitutto un fenomeno intellettuale quanto un avvenimento esistenziale (22).
Partito dalla considerazione che l'uomo è "quasi nulla", Leopardi si apre alla sguardo della grandezza e della nobiltà dell'uomo: la poetica leopardiana è appesa a questo "quasi nulla". Ma gli uomini tanto più sono grandi tanto più sono capaci della conoscenza e del sentimento della propria finitudine. È una meditazione che diventa grido, specialmente in Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima in cui Leopardi paragona lo scheletro in cui è ridotta la donna alla bellezza che l'abitò, fino ad arrivare all'ultima strofa (vv. 50-56):
Natura umana, or come se frale in tutto e vile, se polve ed ombra sei, tant'alto senti? Se in parte anco gentile, come i più degni tuoi moti e pensieri son così di leggeri da sì basse cagioni e desti e spenti?
La verità di Leopardi sta in quella domanda, in quel "misterio eterno dell'esser nostro", in quel grido, in quell'interrogativo che ci fa alzare alla mattina, in quello "spron che quasi mi punge". Leopardi è poeta del desiderio, come aveva intuito De Sanctis: è l'autore che più di ogni altro, nella poesia moderna, ha svelato l'essenza della natura umana, perché "l'uomo è propriamente colui che 'de - sidera': da quando l'homo sapiens sapiens alzò lo sguardo verso il cielo stellato, ha sempre riconosciuto con stupore di essere pieno di una sete struggente", come rileva Roberto Filippetti, che ha letto secondo questa chiave critica i nostri grandi del primo Ottocento (23). Recentemente, Franco Loi richiamava l'attenzione sulla stessa etimologia (da sidus,stella, con il de privativo), per concludere, sulle orme di Dante, che il segno "conduce alla presenza di Dio, quel sidus finale che dal principio è insito nel desiderio" (24). Un'appendice. Il sublime negato di Baudelaire
Di segno diverso, ormai in un'aura decadente, sarà la Musa di Charles Baudelaire, il poeta della "perdita dell'aureola", padre riconosciuto della poesia moderna. Con lui e con altri compagni di viaggio come Hugo e Sue, si compie la "metamorfosi del brutto". Afferma infatti Bodei: "l'arte sceglie come proprio terreno privilegiato i fenomeni abnormi ed ambigui, i luoghi stessi di condensazione del brutto e del disordine: le deformità del corpo e dell'anima, lo squallore morale e materiale, il delitto, i bassifondi e le fogne della società e della coscienza, soprattutto metropolitana" (25). Si apriva così una questione rilevantissima: la rappresentazione del brutto nell'arte moderna. Kant aveva escluso che il disgustoso potesse produrre un piacere estetico: Baudelaire, invece, include il ripugnante nella rappresentazione della bellezza. Bodei allega il bellissimo Inno alla Bellezza (XXI) apoteosi di contrasti, dove la Bellezza "cammina sui cadaveri" e può provenire indifferentemente "dal cielo o dall'inferno", "da Satana o da Dio"; si sofferma poi su Una carogna (XXIX), testo singolarmente vicino alla canzone leopardiana precedentemente esaminata, Sopra il ritratto di una bella donna : il poeta scorge, in un dolce mattino estivo, "una carogna infame"; lo accompagna la donna amata, a cui così si rivolge: "Pure, sarete simile a questa cosa immonda,/ a quest'orribile infezione/ voi, stella dei miei occhi e sole del mio mondo,/ mio angelo e mia passione". Ma un altro testo si impone alla nostra attenzione: si tratta de Le vecchine (XCI), dove il poeta, immerso nella folla della città di Parigi, contempla, "nelle pieghe sinuose delle vecchie capitali,/dove tutto, anche l'orrore, ha un suo incanto", alcune vecchine, "mostri che un tempo erano donne"; ora arrancano, ma hanno talvolta negli occhi gli sguardi della fanciulla "che si stupisce e ride di ogni cosa che brilla". Ma la Musa di Baudelaire volge verso la degradazione della bellezza e si può chiudere solo in un'estenuata domanda: "dove sarete domani, Eve ottuagenarie,/ su cui pesa il tremendo artiglio di Dio?" (26). Del resto in Baudelaire, "l'introduzione del brutto, in tutte le sue varianti, ha appunto lo scopo di far recuperare la carica emotiva a una bellezza che, in età moderna, aveva abdicato a essa in favore del sublime e che rischiava pertanto di degradarsi al lezioso e al piacevole" (27); obbediva quindi a una precisa intenzione artistica. Note 1) Pseudo-Longino, Del Sublime, a cura di F. Donadi, Rizzoli, Milano 1991 2) Baricco, Oceano mare, Rizzoli, Milano 1993. Si fa riferimento al Libro Secondo, Il ventre del mare, pp. 101-123 3) R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995, p. 85 4) Cfr. R. Bodei, L'estetica del bello e del sublime, intervista a cura di S. Calandrelli, per Rai-educational, consultabile al sito http://www.caffeeuropa.it 5) E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1985 6) R. Bodei, Le forme del bello, cit., p. 83 7) G. Sertoli, Presentazione a E. Burke, Inchiesta…, cit., p. 21 8) E. Burke, Inchiesta…, cit., p. 71 9) R.M. Rilke, Elegie duinesi, Prima Elegia, in Poesie, Edipem Novara 1973, p. 93 (trad. di L. Traverso) 10) G. Sertoli, Presentazione, a E. Burke, Inchiesta… cit., p. 23-24 11) R. Bodei, Le forme del bello, cit., p. 88. Per l'approfondimento di questi concetti, si rimanda alla già citata intervista di S. Calandrelli 12) Per la trattazione del sublime in Kant si veda la Critica del Giudizio, nella versione di A. Bosi, Utet, Torino 1993, specialmente alle pp. 219-21; 222, 224-25 e 230-232; 276; 279-280. 13) W.A. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, Il Melangolo, Genova 1977, pp. 17-18 (viene riproposta la traduzione ottocentesca di G. Gherardini) 14) Ibid., p. 18 15) Ibid., p. 19 16) Ibid., p. 18 17) F.Scott Fitzgerald, Belli e dannati, trad. di F. Pivano, Mondadori, Milano 1978 18) T. Mann, I Buddenbrook, trad. di E. Pocar, Mondadori Milano 1980, p. 555 19) Tutte le citazioni sono condotte sulla seguente edizione dei Pensées, di cui si accoglie la numerazione: B. Pascal, Pensieri, a cura di G. Auletta, Ed. Paoline, Milano 1987 20) Cit. in H. Daniel-Rops, Storia della Chiesa del Cristo, vol. IV-2, Marietti, Torino 1960, p. 392 21) Cfr. l'intervista al filosofo di S. Calandrelli, precedentemente citata 22) Per questo giudizio si veda L. Giussani, Le mie letture, Rizzoli, Milano 1996, in particolare pp. 10-11 23) R. Filippetti, Il percorso del de-siderio. Foscolo Leopardi Manzoni, Cusl Nuova Vita, Padova 1992, p. 8 24) F. Loi, Se togli il "de", il desiderio si trasforma in una stella, in "Avvenire", 17/2/2004 25) R. Bodei, Le forme…, cit., p. 100 26) Le citazioni sono tratte da C. Baudelaire, I Fiori del Male, Rizzoli, Milano 1980, introduzione di G. Macchia, traduzione di L. Frezza 27) R. Bodei, Le forme…, cit, p. 104
Carlo Bortolozzo
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