Il signore delle chiavi. Pietro viene citato spesso nell'innografia e ritratto su libri e pitture sacre, anche dopo il concilio di Calcedonia. In una storia bimillenaria l'Etiopia cristiana non ha mai smesso di venerare il pescatore di Galilea.
"Scendendo nella regione di Roma, vidi la Chiesa, la conobbi e la amai teneramente come una sorella". Sono versi attribuiti a Yared, soprannominato mahletai, ossia "melode", secondo la tradizione il padre della musica sacra etiope e fondatore dell'ufficio divino da inneggiare nel corso dell'anno liturgico. È una strofa dell'innario che i cristiani etiopi conoscono bene e l'hanno trasmessa di generazione in generazione. Si tratta di un passo ripreso da un testo paleocristiano della prima metà del II secolo, il Pastore di Erma (una delle prime traduzioni dal greco in geez), che però è stato anonimamente integrato in uno dei cinque volumi dell'ufficio divino etiopico che portano il nome dell'aksumita Yared, vissuto nel VI secolo. È una attestazione succinta ma assai incisiva dell'intimità sacra ("la conobbi") e dell'affetto ("e la amai") che unisce la bimillenaria Chiesa etiopica con la Chiesa di Roma, l'arena del martirio di Pietro, il primo degli Apostoli, l'affidatario delle chiavi del Regno dei Cieli. Il prezioso volume di monsignor Osvaldo Raineri (Il Signore delle Chiavi. Scritti Etiopici sull'Apostolo Pietro, Roma, Edizioni Orientalia Christiana, 2012, pagine 348), studioso e docente di lungo corso di lingua e di istituzioni etiopiche, dipana magistralmente il lungo filo letterario che nonostante lo strappo (informale) consumatosi dopo il primo concilio di Calcedonia (451), ha tenuto unita la gloriosa Chiesa etiope alla figura di Pietro, il capo degli Apostoli.
In un itinerario di oltre trecento pagine, il lettore è condotto per mano a visitare testi in geez o etiopico classico, tradotti con perizia e cura in lingua italiana. Il volume è il frutto di una lunga gestazione del progetto "L'apostolo Pietro e la Chiesa etiopica", nella quale l'autore ha investito la sua passione e familiarità con il patrimonio letterario geez per spigolare da un vasto repertorio di testi etiopici i molteplici riferimenti all'apostolo Pietro. I dati raccolti provengono da opere di traduzione dal greco e dall'arabo al geez e da produzioni locali.
Un pregio impagabile di molte delle opere che evocano san Pietro apostolo è che si tratta di testi di carattere liturgico e devozionale, strumenti quindi che hanno quindi facilitato la "visibilità" e diffusione capillare della pietà petrina. Nonostante la rottura post-Calcedonia, l'Etiopia cristiana non ha mai accarezzato la tentazione di rimuovere né il nome, né i ritratti (spesso con le chiavi in mano) di san Pietro dai libri e dalle pitture sacre. Al contrario, ci sono copiosi riferimenti a san Pietro nell'ordinario della celebrazione eucaristica e nelle numerose anafore, nelle omelie, negli inni, nelle effigi, e nelle agiografie. La lontananza geografica e le ben note incomprensioni teologiche e soprattutto le diffidenze e i pregiudizi, spesso gratuiti che hanno inficiato i rapporti fra le Chiese pre-calcedonensi e la Sede di Roma non hanno però frenato lo zelo di tantissimi etiopi che dopo aver visitato la tomba del Signore risorto si sono rimessi in mare per "baciare" la tomba di san Pietro a Roma. Un pellegrinaggio plurisecolare che ha lasciato un segno che permane fino al giorno d'oggi: la chiesa di Santo Stefano dei Mori, con l'attiguo ospizio dei pellegrini etiopi, all'interno della Città del Vaticano.
Tedros Abrah
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