Per pronunciare una parola piena, infatti, occorre molta fatica e un abisso di silenzio, lo stesso affrontato dal seme che marcisce e si alza nella vita. Il silenzio non è assenza dal mondo, ma patria delle voci. Chi è stordito dal rumore non accoglie l'infinito.
del 08 ottobre 2009
Si dice: «Il silenzio c’è quando non si ha nulla da dire».
 
Certo, il silenzio può essere anche un segno di vuoto, perché, nel continuo chiacchierare di oggi, non aver nulla da dire sembra un assurdo, un segno di miseria. E se invece fosse la continua chiacchiera a essere un segno di miseria, perché manifesta la volgarità? Per pronunciare una parola piena, infatti, occorre molta fatica e un abisso di silenzio, lo stesso affrontato dal seme che marcisce e si alza nella vita.
 
Eppure, anche il fatto di non aver nulla da dire dice tanto: le cose più importanti, lo sa chi le conosce, non si dicono a parole (il silenzio alla fine di una melodia, l’incertezza trascolo-rante dell’alba, un bacio, una carezza, il suono del picchio che comincia il nido in pieno inverno). Chi incontra l’infinito sa che non può dirlo. Può essere che in una sola parola venga condensata l’intera vita (Joyce), tutto l’essere, perché ogni parola è una «forma di vita» (Wittgenstein).
 
Il silenzio non è assenza dal mondo, ma patria delle voci. Chi è stordito dal rumore non accoglie l’infinito. Ne è prova il silenzio del biologo che nel laboratorio coglie e ripensa all’immenso infinito che si esprime nell’ingegneria di una sola cellula. Oppure il silenzio della madre che sta crescendo nel proprio grembo un figlio: in tutti resta indelebile il ricordo del battito del cuore materno, al contempo rassicurazione e apertura verso l’eterno, che si ritrova poi nel ritmo delle onde, nell’ondeggiare degli abeti al vento, e anche nell’ossessivo ritmare del rock. O, ancora, il silenzio del poeta e del matematico che inventano-trovano «l’oltre che è il vero di tutto», proprio perché costeggiano le sponde dell’infinito.
 
A volte ci coglie la tristezza di vivere in una Chiesa che non sa farsi «ricreare dal silenzio»: quante volte i riti sommano parole a parole, senza spazi di silenzio come adorazione, sosta di accoglienza, contemplazione dei simboli. Non è forse un segno di volgarità il gettarsi fuori, senza vivere gli inaccettati silenzi di Gesù, i lunghi silenzi che Dio impone a se stesso affinché abbia luogo la libertà umana?
 
Il monaco vive il prezioso e nascosto gioire della vita nel silenzio che ascolta: ascolto dello Spirito che unisce al Padre; ascolto della Parola di vita; ascolto delle parole della vita di tutti. Nell’eremo giunge nella notte il rumore della vita che rotola sull’autostrada del Sole, giù in valle; è un esodo, questo continuo andare, che il monaco porta nella sua preghiera davanti a Dio. Nel silenzio del suo eremo, egli vive il privilegio di portare silenziosamente a Dio il «rumore» della storia, per rendere presenti i ritmi della vicenda umana. Quando l’orante porta a Dio il segreto bisogno di tutti, ha la certezza che il vagare lascia posto all’andare verso una meta, finalmente all’approdo.
 
La casa del Padre resta aperta per tutti, anche quando si va lontano e si sperimenta che il molto che si è tentato di avere è tanto poco dinanzi al tutto. Allora si può ritrovare il posto: quello dal quale si è partiti. L’orante nel silenzio è l’umanità che ritorna al Padre («prometto il cambiamento del mio modo di vivere» dice la professione monastica). Il silenzio è, anche, la casa dei ritorni.
 
 
don Paolo Giannoni, Eremo di Mosciano
Versione app: 3.25.3 (26fb019)