Quando incolpiamo Dio di mutismo, quando attribuiamo a lui il vuoto del nostro cuore è perché in realtà siamo noi incapaci di ascoltarlo, perché cerchiamo da lui una parola che sia a nostra immagine e somiglianza.
del 01 gennaio 2002
Tra le numerose accezioni del silenzio ve n’è una che ai nostri giorni è chiamata in causa con eccessiva facilità: il silenzio di Dio. E non nel senso tragicamente interrogativo del suo apparente tacere di fronte all’abisso del male, bensì in quello più spicciolo, quotidiano, personale. Quante volte, infatti capita di ascoltare lamentele che paiono accuse scagliate verso il cielo: “Dio non mi parla, non mi dice nulla!”. Parole pronunciate sovente non da grandi figure spirituali, avanzate negli anni, la cui lunga esperienza di preghiera può aver conosciuto anche la “notte oscura” dell’assenza di Dio, bensì da giovani o da comuni credenti che paiono quasi giustificare così la loro mancanza di fede, il loro allontanarsi dai luoghi e dai tempi della preghiera, del dialogo con il Signore nella fedeltà dell’amore. Sì, è diventato quasi un vezzo chiedersi “dov’è Dio?” ogni volta che siamo scossi da qualche evento terribile e imputargli un silenzio colpevole nel dipanarsi della storia come nelle nostre vicende personali. Questo, tra l’altro, ci libera dai ben più inquietanti interrogativi: “Dov’è l’uomo, fratello del suo simile? Dove sono io? Che ne ho fatto della mia responsabilità e solidarietà?”.
In realtà, il “silenzio di Dio” è un’espressione biblica che l’Antico Testamento in particolare mette in bocca a uomini e donne in preghiera. Questo suggerisce che il Dio silente non è tanto un argomento di chiacchiera o discussione ma piuttosto l’interrogativo al culmine di un cammino di sofferenza: quando si è colti dal dolore, dall’oppressione, dallo sterminio, dall’ingiustizia che uccide e non vi è nessun uomo che venga in aiuto, nessuno che ascolti, che prenda le difese, che denunci il male, allora il credente chiama Dio e, se ancora nulla cambia, lo supplica accoratamente: “O Dio, non restare muto, non startene in silenzio!” (Sal 82,2), “Dio della mia lode, esci dal silenzio!” (Sal 109,1), “Se tu resti muto, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1). Anche Giobbe ha gridato: “Urlo verso di te e non rispondi!” (Gb 30,20). Chi prega così non pretende che Dio parli, ma pretende che qualcosa cambi nella propria situazione, che vi sia un mutamento nella realtà circostante e un cambiamento in se stesso: infatti, si può anche vivere un cammino di sofferenza e non denunciare il silenzio di Dio, ma questo è possibile solo se si giunge a capire che quel cammino ha un senso. Gesù nella sua estrema derelizione sulla croce si è rivolto a Dio chiedendogli: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, intonando così il salmo 22, il canto del giusto perseguitato a morte. Ma proprio in quel salmo, dopo il lamento, quando sembra che tutto ormai sia solo aporia, che tutto sia ormai finito, la voce dell’orante si leva ad esclamare: “Tu mi hai risposto!”.
Ma queste invocazioni dei salmisti, queste suppliche a Dio perché cessi di starsene in silenzio vanno decodificate: si tratta di discernere se è Dio che fa silenzio o non piuttosto il credente, il popolo, l’orante che non ascolta, che è incapace di cogliere la parola di Dio, pronunciata magari in altro modo, attraverso eventi e vicende inattese e non prevedibili?. E comunque, perché non cogliere che Dio può parlare anche nel silenzio? Sì, il silenzio può essere una modalità altra del suo linguaggio, accanto a quella della parola pronunciata e della parola-evento che si realizza. Non dovremmo scordare un testo biblico estremamente illuminante in proposito, un testo che un tempo risuonava come antifona di introito nella messa della notte di Natale: “Mentre un silenzio profondo avvolgeva ogni cosa... dall’alto dei cieli... la tua parola onnipotente si lanciò dal trono regale” (Sap 18,14-15). Mistero di parola e silenzio in Dio.
Sì, Dio è in verità silenzio e parola: non silenzio muto e sordo, ma silenzio che è un modo di comunicare altro rispetto alla parola, un modo che in determinate circostanze può rivelarsi più efficace ed “eloquente” di qualsiasi discorso. La parola di Dio resta iscritta nel suo grande silenzio e in esso trova la propria origine e la propria leggibilità: da parte nostra dobbiamo ascoltare l’uno e l’altra, perché entrambi sono presenza di Dio, di quel Dio che non può non essere presenza, perché come tale si è sempre manifestato. Sappiamo che la tentazione dell’ateismo, del nulla, della “nientità” è costantemente in agguato anche, e forse soprattutto, per gli uomini e le donne di preghiera, per i grandi contemplativi che vivono nella fede e nella salda adesione al Signore: anche loro possono giungere a lamentarsi del silenzio di Dio, a piangerne l’assenza e a invocarne una parola. Ma proprio costoro ci testimoniano che non per questo la presenza di Dio viene meno: Dio è sempre presente all’uomo, da lui creato a propria immagine e da lui amato fino all’estremo. Quando incolpiamo Dio di mutismo, quando attribuiamo a lui il vuoto del nostro cuore è perché in realtà siamo noi incapaci di ascoltarlo, perché cerchiamo da lui una parola che sia a nostra immagine e somiglianza.
Enzo Bianchi
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