Balthasar fu definito l'uomo più sapiente del '900. Lui disse: “L'uomo decisivo è Joseph Ratzinger”.
del 08 gennaio 2007
Camminano sotto il cielo di Basilea, in una vecchia tavola disegnata dal maestro Franco Vignazia. L’“uomo più dotto del suo tempo” procede, nell’iconografia ancora sessantottina lo segue un gruppo eterogeneo. Si riconosce uno studente di teologia con la barba rossa. Siamo alla metà degli anni Settanta. Quando, dopo il Concilio, Hans Urs von Balthasar, “il più sapiente uomo del secolo” – così lo immortalava la definizione del suo maestro Henri de Lubac – aveva “iniziato a radunare degli amici, per costruire con loro una realtà efficace per realizzare il giusto rinnovamento, contro tutte le falsificazioni”. Così era “diventato il padre della grande famiglia di Communio, che oggi è attiva in tutti i continenti: e che pur rimanendo un piccolo seme, simboleggia una forza della comunità. Della vita, della trasformazione e del rinnovamento”. Ricordava così, nel 1988, in occasione del funerale di von Balthasar, un commosso cardinale Joseph Ratzinger. Anch’egli fondatore e ispiratore di Communio, rivista internazionale di teologia, amico ed estimatore di Balthasar, genio sinfonico nella cui opera immensa convergono poesia, musica, letteratura, filosofia, riflessione teologica e mistica. Una bibliografia impressionante sotto l’astro della Herrlichkeit, Gloria, la teologia cristiana alla luce del terzo trascendentale, il “pulchrum” che apre alla considerazione del “verum” e del “bonum”.
Con qualche anno di più, la barba un po’ imbiancata, lo studente di quel vecchio disegno, Elio Guerriero, poi a lungo direttore dell’edizione italiana di Communio, attualmente vicedirettore editoriale delle Edizioni San Paolo, dice: “Il legame tra la nostra rivista e il cardinale Ratzinger risale al tempo delle origini. Erano gli inizi degli anni Settanta e furono alcuni tra i discepoli di don Giussani, fra cui Eugenio Corecco, Angelo Scola e l’editore di Jaca Book, Sante Bagnoli, a presentarsi a von Balthasar sorprendendolo con la proposta di pubblicare la nascente rivista in Italia. Balthasar rispose esplicito: “Dovete parlare con Ratzinger. E’ lui, oggi, l’uomo decisivo per la teologia di Communio”. La rivista non era solo il tentativo di una risposta al più noto periodico Concilium, o almeno non solo. Nasceva invece dalla constatazione teologica concreta che la comunione è creata dalla presenza donata di Dio. Spiega ancora Guerriero, che di recente ha pubblicato una nuova monografia, “Hans Urs von Balthasar”, per i tipi di Morcelliana: “Ambedue i teologi facevano parte della Commissione teologica internazionale e della direzione della rivista Concilium. Preoccupava, all’epoca, l’intento niente affatto nascosto di tanti teologi, alcuni dei quali avevano partecipato all’assemblea conciliare come esperti, di andare oltre il Vaticano II, di vivere in una sorta di assemblearismo continuato. La reazione, se tale si può definire, era in nome di una concezione teologica secondo la quale il cristianesimo è anzitutto partecipazione alla vita di Dio, meglio ancora è accoglienza della comunione di Dio che si dona. Non sono dunque i fedeli che si riuniscono e fanno l’Eucarestia, bensì è la chiamata di Dio cui fa seguito il dono della sua Comunione nello Spirito d’Amore a costituire la vita cristiana. La Communio, di conseguenza viene accolta attraverso la mediazione dello Spirito Santo, che rende presente tutto quanto ha detto e fatto Cristo”.
A dare entusiasmo alla nascita della rivista era poi l’enorme spinta intellettuale di von Balthasar. Insieme a de Lubac e, naturalmente, a Ratzinger, tra i maggiori esponenti di una rinascita teologica ecclesiale, polemica e rischiosa che, senza mediazioni, poneva centrali lo studio e l’approfondimento della fede. La stessa formazione di von Balthasar, asistematica e caratterizzata dalla contestazione della neoscolastica, è già testimonianza. Recita una delle pagine biografiche più note del teologo: “A Vienna non studiai solo musica, bensì germanistica e quanto vi appresi (…) è la possibilità di vedere, valutare e interpretare una figura; diciamo pure lo sguardo sintetico (in contrapposizione a quello critico di Kant e a quello analitico delle scienze naturali). Di questa attenzione alla figura io sono debitore a Goethe che, emergendo dal caos dello Sturm und drang, non smise di vedere, creare e valorizzare figure viventi”. Per la Gestalt, per il concetto di “figura” era possibile non perdersi nell’astrattezza della metafisica, era possibile parlare del destino del genere umano a partire dalla visione di singoli letterati e pensatori, muovendosi dai loro eroi, miti e poetiche. Un’idea che il teologo della bellezza coltivava dai tempi della giovinezza, a lungo dedicata allo studio dei Padri, secondo il consiglio di Henri de Lubac. Dionigi l’Aeropagita e Massimo il Confessore avevano a tal punto colpito Balthasar da indurlo a progettare (e poi a scrivere) un volume su entrambi. La vera folgorazione, tuttavia, fu l’incontro con Origene. Quattro parti compongono l’antologia “Spirito e fuoco” che si ripromette di ricostruire il pensiero dell’Alessandrino a partire dai suoi stessi frammenti. L’idea di fondo è la riscoperta del Logos come immagine del Padre dall’eternità; l’archetipo primo per la creazione del mondo. Tutto il creato, così, acquista senso nel momento in cui l’adesione al Verbo da oggettiva e indiscriminata diviene soggettiva e volontaria.
Il rapporto con la tradizione – stella polare per l’impegno di Communio – era peraltro un altro trait d’union tra il pensiero del futuro Papa e quello del teologo della bellezza. Von Balthasar aveva partecipato, sia pure in posizione defilata, all’orientamento teologico della Nouvelle théologie che aveva avuto come capofila ancora il padre Henri de Lubac. Questi aveva fatto ricorso alla tradizione per superare l’immobilismo della scolastica tra le due grandi guerre, nel tentativo di dimostrare che non esistono due ordini sovrapposti: un ordine naturale e un ordine soprannaturale, bensì un unico ordine (quello naturale) che è aperto al soprannaturale. “Ratzinger – spiega Guerriero – legge le opere di de Lubac negli anni Cinquanta. Si appassiona a quel grande lavoro teologico. Fa suo il concetto di rivelazione che non è un concentrato di verità, ma un Dio, il Logos che si dona e si fa conoscere. E’ questo il concetto di rivelazione che egli porta al Concilio. La rivelazione (Ratzinger la verifica soprattutto in san Bonaventura) non è un insieme di verità rivelate, non è neppure la “sola scrittura’’ di Lutero, ma un Dio che si rivela. Per questo il concetto di tradizione è fondamentale. Vi è un percorso della rivelazione nei secoli attraverso il quale il Verbo si fa conoscere. Non basta, dunque, mettersi davanti ai dati rivelati o anche di fronte alla Scrittura, ma bisogna ancora una volta porsi nell’atteggiamento di colui che riceve da Dio, attraverso i santi, attraverso la chiesa, attraverso la ragione”. Vi è una sporgenza ineliminabile del concetto di rivelazione rispetto alle verità confezionate. Questa visione, peraltro, induce Balthasar e Ratzinger a lottare contro un altro riduzionismo dei tempi postconciliari: la cosiddetta deellenizzazione della fede. E’ l’operazione lanciata dagli esegeti nella quale si attardano ora tanti gruppi biblici: deellenizzare il cristianesimo è un impoverimento. La dottrina cristiana non nasce dalla Grecia di Pericle, bensì proprio nel contesto dell’ellenismo, in cui confluiscono pensiero greco, pensiero ebraico, ordine romano.
Il cardinale Ratzinger, prima dell’elezione al Soglio, è tornato ancora di recente su questi temi, nei volumi sull’Europa, occupandosi di libertà della persona e di organizzazione della società, di regole della democrazia e di contributo del cristianesimo, convinto dell’importanza di un apporto positivo, della possibilità di una partecipazione nella costruzione della polis, per far sentire la voce della razionalità e della verità, laddove minacciano di prevalere l’arbitrio e la prepotenza.
Non distratto da impegni pastorali, von Balthasar cercò invece sempre di seguire il filo d’Arianna di una concezione teologica ormai compiuta, soprattutto attraverso l’indagine filosofica, letteraria e musicale. Nelle opere dedicate alla musica, una breve serie di saggi che costituiscono l’esordio del suo lavoro, il teologo anticipa già, in qualche modo, i temi che poi saranno propri della trilogia di “Gloria”. La nostalgia dell’intelletto umano nell’ascolto della musica è al contempo immagine di grandezza e debolezza. E’ relazione con Dio nel suo movimento, nel gesto di donazione. Pure, l’inafferrabilità del divino nell’arte è anche garanzia per la tragedia del non senso, è intuizione concreta della drammatica della bellezza. La risposta non è il cedimento a una personalizzazione espressionista, ma, come sottolineato già nelle pagine relative alla formazione, la concentrazione sull’idea di forma. E’ Mozart il musicista di riferimento per von Balthasar, che più volte torna sul presentimento di grazia e di splendore, limitando sempre più gli aspetti tecnici dell’analisi musicale, evitando deliberatamente una sistematizzazione del discorso, lasciando spazio nell’analisi alla viandanza della musica, al fluire delle note come una indistinta, essenzialmente umana, lode alla creazione.
Attraverso la riscoperta della monografia come genere, Balthasar andò inoltre a incontrare, sulle ali di uno stile che non manca mai di colpire al cuore il suo lettore, molte delle maggiori personalità intellettuali del suo tempo. Celebri resteranno i volumi dedicati a Georges Bernanos e a Reinhold Schneider, le traduzioni di opere di amici come Claudel – fece mettere in scena “La scarpetta di raso” a Zurigo, durante la guerra – de Lubac e don Luigi Giussani. E’ alle origini della speculazione balthasariana che bisogna fare capo per comprendere questa vera e propria metodologia, o meglio la ametodologia di un lavoro, pure, prepotentemente logico e teologico. Si intitolava “Storia del problema escatologico nella moderna letteratura tedesca” già la sua tesi di dottorato, che escludeva espressamente distinzioni di sorta tra filosofia, letteratura, teologia. Qui Balthasar, definita l’escatologia come la “dottrina del rapporto dello spirito con il suo destino ultimo o eterno” si trovava di fronte a un problema preciso: salvare la libertà di Dio e allo stesso tempo la libertà dell’uomo. Scrive nell’introduzione all’Apocalisse: “La divinizzazione dell’uomo avviene a discapito della sua personalità. La mistica fichtiana della ‘scintilla animae’ conduce alla storicizzazione dell’assoluto e all’assolutizzazione dell’elemento storico operata da Schelling e Hegel. Ne risulta l’identità di essere e divenire, di Dio e uomo, di pienezza e infinità, una sorta di nodo gordiano irrisolvibile contro il quale invano si affannano i pensatori, mentre solo i poeti sono in grado di proporre qualche via di fuga. L’escatologia dell’idealismo si rivela, alla fine, ostile al singolo, ridotto a marionetta senza libertà e divenire”. Da qui, secondo Balthasar, la necessità di riconoscere piena libertà a Dio e piena libertà all’uomo, come fa il concetto di persona che, attraverso l’analogia, può essere applicato anche a Dio. Libertà infinita e libertà finita saranno in effettiva correlazione. Siamo qui al centro del suo percorso teologico, questa è la condizione che apre al più intimo, titanico sforzo della teologia balthasariana, l’edificazione della “Teodrammatica”. Scriveva Balthasar: “Il solo ancoraggio rassicurante per la creatura, che sta sospesa nella libertà di Dio, riposa d’ora in poi oggettivamente nella veracità di Dio, soggettivamente nel proprio atteggiamento fiducioso”. Nell’incarnazione e nella accettazione della forma umana da parte dell’ipostasi del Verbo si verificherà il dramma di Dio nella storia. Fatte proprie le aporie di finitezza e temporalità, fatta propria la morte in solidarietà e sconfitta con le creature, solo nel sepolcro del Sabato santo, il Figlio prenderà su di sé tutto il non amore e la possibilità della negazione, libera, che pure viene risolta nel sì, nel sacrificio del Figlio stesso, al Padre, nello Spirito. Lo scandalo del male, la sua enormità mostruosa, avvertita dal Cristo nell’orto degli Ulivi, è passaggio irrinunciabile. Di qui l’insistenza, in numerose opere, sul cristianesimo come “caso serio”, di nuovo la vicinanza strettissima con Bernanos, l’insistenza di Balthasar a leggere tutta la propria opera attraverso la luce delle rivelazioni di Adrienne von Speyr, la mistica svizzera che accompagnò a lungo con le visioni il suo lavoro di pensiero, l’atteggiamento severo nei confronti di certa banalizzazione liturgica postconciliare.
Sono queste, in estrema sintesi, le grandi tematiche balthasariane, ma conviene ricordare, ancora una volta con terminologia musicale, che la sua opera è una sinfonia della grande cultura occidentale nella quale confluiscono teologia e pensiero, letteratura, arte. Il procedere sinfonico, peraltro, non è distacco dalla storia, bensì lotta titanica per il guadagno della forma. Questa è il frammento che permette di salvare il tutto. Ma perché questa testimonianza che pure aspira all’universalità, anzi, spera di salvare tutto il mondo, possa restare fedele al suo compito non deve mimetizzarsi, nascondersi al mondo e quasi annichilirsi in esso, bensì avere presente il caso serio, la possibilità del martirio. Se l’uomo può trovare la grazia lungo tutte le vie religiose, se versiamo l’acqua del battesimo sull’illuminismo e la teologia liberale, sull’idealismo tedesco e sulle categorie hegeliane, allora il cristianesimo perde la sua specificità. Eppure negli anni Cinquanta Balthasar veniva considerato un teologo progressista. Il suo libretto programmatico “Abbattere i bastioni”, tuttavia, indicava la via contraria al facile aggiornamento- adeguamento al mondo, intrapreso negli anni Settanta.
“Abbattere i bastioni” era l’invito rivolto alla chiesa a farsi trasparente, per mostrare agli uomini il mistero del Dio d’amore che si dona e attraverso la chiesa viene celebrato oggi nel presente. Il rigore, allora, vuole che la chiesa divenga più seria, non contribuisca alla sua distruzione. Di qui anche la lotta contro la banalità di certa critica autolesionista, a difesa della speranza portata da Cristo. E qui, ancora una volta, Balthasar conveniva con Ratzinger: perché questo “odium sui” della cultura occidentale, questa resa, questo complesso antirazionale?
Forse la risposta più convincente è nel binomio posto a titolo di una delle encicliche di Giovanni Paolo II. Solo la comunione, l’unione di “fides et ratio” può portare non a una difesa, che in fondo è termine riduttivo e polemico, ma a una rigenerazione culturale, a tenere vivo un canale per la trasmissione di un flusso di tradizione che non può esser fatto mancare non solo all’Europa, ma al mondo. La cultura europea, allora, si inserirà nella sinfonia, per celebrare con un altro titolo balthasariano la liturgia cosmica a lode della Gloria. Chi vuole, qui, può ritrovare Dante, di cui, non c’è quasi bisogno di dirlo, Balthasar diede un’interpretazione magistrale. 
Luisa Gandini
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