Il vortice da spezzare. I giovani e il contagio da jihad

Sono sempre di più, e sempre più giovani, i ragazzi che fuggono dall'Europa e dagli Stati Uniti per aderire al jihad.

Il vortice da spezzare. I giovani e il contagio da jihad

 

Nelle camerette, protette dalle certezze di un Occidente che lavora all’integrazione, di rosa e azzurro sono rimaste solo le pareti. I poster di attori e cantanti non ci sono più: scaricate da internet e attaccate con lo scotch, adesso campeggiano le immagini dei guerriglieri dello Stato islamico. Sorridono, stretti ai Kalashnikov. E a loro, eroi sbagliati di una nuova generazione, guardano con occhi incantati migliaia di  adolescenti in cerca di un’identità forte. Buona o cattiva che sia, purché capace di canalizzare e risolvere l’angoscia di essere “niente”, “nessuno”.

 

Sono sempre di più, e sempre più giovani, i ragazzi che fuggono dall’Europa e dagli Stati Uniti per aderire al jihad. Solo ieri, tre ragazzine americane – 15, 16 e 17 anni, due di origine somala, una sudanese – sono state fermate all’aeroporto di Francoforte dagli agenti dell’Fbi: erano partite da Denver, Colorado, dopo aver saltato la scuola e comperato i biglietti con i soldi rubati ai genitori. Volevano andare in Siria: avevano organizzato tutto in Rete. Nei dettagli. Mesi fa, un’altra ragazzina di 14 anni, francese, era stata bloccata allo scalo Lione. Aveva mandato un sms aspettando l’imbarco per la Turchia: «Ciao, papà, vado a combattere». Tanti altri ce la fanno, e in Iraq e Siria ci arrivano davvero. E ci muoiono.

 

L’archetipo del male ha sempre esercitato un fascino molto forte, oscuro, in una fascia di età complicata, esposta a tante suggestioni. Il mito dell’autodistruzione ha seminato danni e morte negli anni dell’eroina. Quello della supremazia ha creato mostri come il norvegese Anders Breivik o i massacratori della scuola americana Columbine. L’aberrazione può innestarsi con tragica efficacia sulla fragilità psicologica dei più giovani. Ma con l’Is sta succedendo molto di più. E di più grave.

 

Le cronache degli ultimi tre mesi sembrano ribaltare la logica dell’«indottrinamento religioso» che quantomeno, fino a poco tempo fa, consentiva l’individuazione di un’“origine” del male (i reclutatori) da perseguire, bloccare. Si registra un’inversione di marcia: non sono più (o non solo) i miliziani che vanno a cercarsi adepti in Rete, ma sono gli aspiranti-jihadisti che si procurano contatti e canali nel Web. Trovandone un’infinità. L’Is, con la sua propaganda “vincente” e strategicamente organizzata sui social-network, offre un “pacchetto” allettante ed estremamente accessibile.

 

I voli low cost e le disponibilità economiche dei baby-jihadisti (in genere immigrati di seconda generazione con famiglie piuttosto solide alle spalle) fanno il resto.

 

La domanda è come si possa spezzare questo meccanismo che si autoalimenta in continuazione. E la risposta non può che essere corale, condivisa su più livelli. Il presidente americano Barack Obama, assieme ai leader europei, ha recentemente coinvolto i colossi del Web – Google, Facebook, Twitter – nella lotta contro lo Stato islamico. La logica non fa una piega: se Is fa metà del suo “lavoro” online, tagliamo fuori Is dal Web. È una forma di “censura etica” che sta parzialmente funzionando con il blocco dei video diffusi dai jihadisti. I media fanno la loro parte, e stanno cercando un punto di equilibrio tra il compito di informare e quello di bloccare la “commercializzazione” dell’orrore (in questo orizzonte, "Avvenire", come molte altre testate nazionali e internazionali, ha deciso di non pubblicare più, neanche parzialmente, le immagini delle decapitazioni).

 

Tanta parte del lavoro è però affidata agli islamici che aderiscono ai valori di civile convivenza e di rispetto delle fondamentali libertà della persona. E ai loro leader religiosi e politici. Hanno il dovere di sollevare forte la propria voce contro l’estremismo e contro questa deriva di follia che distorce prima di tutto l’islam. Gli imam di Parigi e quelli di Roma hanno aperto un importante varco nel muro di silenzio. Tanto, però, resta da dire e da fare.

 

Poi ci sono le famiglie. Chiamate ad educare, accompagnare, sostenere. E e vigilare, certo, in un modo che, forse, va ritrovato, riconsiderato, con più attenzione e coraggio. Perché nelle camerette di Denver o di Lione, sulle pareti, sopra il computer, tornino a sorridere modelli giusti o, almeno, non terribilmente sbagliati.

 

 

Barbara Uglietti

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