Elevarci a questo ideale di perfezione morale, cioè al prototipo dell'intenzione morale in tutta la sua purezza è il dovere universale di noi uomini, e a ciò quest'idea stessa, che ci è data dalla ragione come uno scopo da raggiungere, ci può dare la forza necessaria.
del 06 novembre 2009
 
 
La sola cosa che possa fare di un mondo l'oggetto del decreto divino e il fine della creazione, è l’umanità (l'essere razionale in generale del mondo) in tutta la sua perfezione morale, della quale, come sua condizione suprema, la felicità è la conseguenza immediata nella volontà dell'Essere supremo.    
 
Quest'uomo, il solo che è gradito a Dio, «è in lui fin dall'eternità»; l'idea di lui deriva dall'essere stesso di Dio; egli non è, in questo senso, una cosa creata, ma il suo Figlio unigenito; «il Verbo (il Fiat!) per mezzo del quale tutte le altre cose esistono, e senza del quale nulla esisterebbe di ciò che è stato fatto» [Gv 1,1 ss.] (giacché in vista di lui, cioè dell'essere razionale nel mondo, come lo si può pensare in base alla sua destinazione morale, tutte le cose sono state fatte). «Egli è il riflesso della sua gloria» [Eb 1,3]. «In lui Dio ha amato il mondo» [lGv , 4,10] e solo in lui, e mediante l'adozione delle sue intenzioni noi possiamo sperare «di diventare figli di Dio» [Gv 1,12] ecc.
 
Elevarci a questo ideale di perfezione morale, cioè al prototipo dell'intenzione morale in tutta la sua purezza è il dovere universale di noi uomini, e a ciò quest'idea stessa, che ci è data dalla ragione come uno scopo da raggiungere, ci può dare la forza necessaria. Ora, appunto perché non siamo gli autori di quest'idea, ma essa ha preso posto nell'uomo senza che noi comprendiamo come la natura umana abbia semplicemente potuto essere capace di riceverla, si può dire meglio che quel prototipo è disceso dal cielo sino a noi, che esso ha assunto l'umanità (giacché è meno possibile rappresentarci come l'uomo, cattivo per natura, possa da sé liberarsi dal male ed elevarsi sino all'ideale della santità, anziché concepire che questo ideale assuma l’umanità [la quale non è cattiva di per sé] e si abbassi sino ad essa).
 
Quest'unione con noi può dunque essere considerata come uno stato di umiliazione del Figlio di Dio [cfr. Fil 2,6 ss.] se noi ci rappresentiamo quest'uomo dalle intenzioni divine come un nostro modello, il quale, sebbene sia santo da parte sua, e, quindi, in quanto tale, non sia condannato a sopportare dolori, tuttavia, accetta di soffrirli nella massima misura per promuovere il bene del mondo; mentre l'uomo, che non è mai libero da colpa, anche quando anch'egli ha adottato questa stessa intenzione, può considerare come meritati da lui i dolori che, per qualsiasi via, lo possono colpire, e, quindi, si deve ritenere indegno dell'unione della sua intenzione con una tale idea, sebbene essa gli serva da modello.
 
L'ideale dell'umanità gradita a Dio (e, quindi, l'ideale di una perfezione morale tale quale è possibile ad un essere del mondo dipendente da bisogni e da inclinazioni), noi non potremmo concepirlo se non mediante l'idea di un uomo pronto non solo ad adempiere tutti i doveri umani e, insieme, a diffondere intorno a sé, nella massima misura, il bene con la sua dottrina e col suo esempio, ma anche disposto, sebbene tentato dai più grandi adescamenti, a subire tutti i dolori, sino alla morte più ignominiosa, per il bene del mondo, e anche per il bene dei suoi nemici. Giacché l'uomo non si può fare un'idea del grado e dell'intensità della forza che è pro. pria dell'intenzione morale, se non in quanto egli se la rappresenta in lotta con degli ostacoli e trionfante, ciò nonostante, in mezzo ai più grandi assalti.
 
Nella fede pratica in questo figlio di Dio (in quanto vien rappresentato come se avesse assunto la natura umana) l'uomo può sperare di rendersi gradito a Dio (e per tal modo di godere anche della beatitudine); cioè l'uomo che ha coscienza di avere un'intenzione morale tale che gli sia possibile credere e possedere in sé una fiducia ben fondata di rimanere, in mezzo a tentazioni e a sofferenze simili (che sono la pietra di paragone di quella idea), immutabilmente attaccato a tale modello dell'umanità e fedele a seguire il suo esempio, quest'uomo e questo soltanto ha il diritto di ritenersi un oggetto non indegno della compiacenza divina.
 
 
(Da I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. di Gaetano Durante, in id., Scritti di filosofia della religione, a c. di Giuseppe Riconda, Milano, Mursia, 1989, pp. 107-109)
 
Immanuel Kant
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