«Imputato Caino, alla sbarra!»

La gelosia è il sentimento più torvo e pericoloso che l'animo umano può partorire. È, assieme all'invidia (specie quella sociale), uno dei motori del mondo.

«Imputato Caino, alla sbarra!»

da Teologo Borèl

del 14 dicembre 2009

 

L'ACCUSA          Procedimento nei confronti di Caino, figlio primogenito di Adamo ed Eva, imputato del reato di cui agli art. 575, 576, 577 e 61 n. 1 e 4 c.p. e 4 legge 18.4.1975 n. 110 per avere cagionato la morte di Abele colpendolo con un’arma rimasta sconosciuta, agendo per motivi abietti, con crudeltà e premeditazione nei confronti della vittima, che era suo fratello.

 

IN FATTO          Adamo ed Eva cacciati dal giardino dell’Eden concepirono Caino, il loro primogenito, e poi Abele. Abele era pastore di greggi, Caino era agricoltore. Caino offriva al Signore i frutti del suolo, Abele i primogeniti del suo gregge. Il Signore gradiva i doni di Abele, non quelli di Caino. Caino ne fu molto irritato. Caino invitò Abele in campagna e lì alzò la mano contro di lui e lo uccise.

IN DIRITTO          Questa è la storia, così come ce la racconta la Genesi, ma come in ogni processo che si rispetti va prima di tutto analizzato il rapporto vittima-colpevole. Sappiamo che erano due fratelli, che avevano ricevuto la vita dalla stessa fonte (Adamo ed Eva), ma come spesso succede, erano profondamente diversi per gusti, attitudini e inclinazioni. Tutti e due offrono sacrifici, i primi nati del gregge Abele, i frutti della terra Caino. Il primo immola le vittime, il secondo i frutti della terra, non i più cattivi, ma quelli ordinari, normali. C’è questa grande differenza, che sarà all’origine della tragedia. Perché Dio non considera i doni in quanto tali, ma il cuore di chi li dona. Qui entra in gioco la gelosia, che si manifesta con 1’«abbattimento del volto».

          La gelosia è il sentimento più torvo e pericoloso che l’animo umano può partorire. È, assieme all’invidia (specie quella sociale), uno dei motori del mondo. La gelosia nei confronti del secondogenito è uno dei classici della psicologia. Nessuno di noi può dire di esserne immune. Confrontarsi con un fratello che comunque ai tuoi occhi e nel tuo cuore ti toglie amore, quello dei genitori, e al quale dai amore. Il Codice giustamente ci dice che gli stati emotivi o passionali non escludono o diminuiscono l’imputabilità (art. 90 c.p.), cioè la capacità di intendere e di volere.

          Era Caino affetto, al momento del fatto, da uno stato emotivo e passionale? Sicuramente sì, ma perché questo nulla toglie e nulla aggiunge alla sua colpa? Per il libero arbitrio, che tutti noi abbiamo e che ci permette di controllare, se vogliamo, i nostri moti istintivi. Questo non succede a Caino che, pazzo di invidia, attira il fratello in una trappola. Perché ho contestato l’aggravante della premeditazione? Perché Caino costruisce a tavolino il suo piano, non vede il fratello e lo uccide, ma lo invita ad andare con lui in un campo. Nel tragitto, breve o lungo che sia stato, ha il tempo di pensare, di ritornare sui suoi passi, ma non lo fa.

          L’omicidio si compie e assistiamo in diretta al primo interrogatorio della storia, compiuto direttamente da Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?». E lui risponde: «Non lo so, sono forse il guardiano di mio fratello?». Caino si difende negando. Sfida il suo inquisitore, risponde con un’altra domanda. Quando Caino abbassa le penne? Quando Dio pronuncia la sua condanna: «Errare lontano dal suolo», lavorare una terra che non dà più frutti, vagare fuggiasco sulla terra. E qui, assistiamo in diretta al materializzarsi della benedetta «certezza della pena». La pena è immediata e non patteggiabile.

          Non ci sono trattative, concessioni, colloqui tra Pm e difensore, riti abbreviati, patteggiamenti, giudizi immediati, tutto quell’armamentario della nostra realtà giuridica che ha reso la nostra giustizia una mancata giustizia. Ma l’inesorabilità della condanna provoca il miracolo. Caino finalmente si rende conto della enormità di quanto commesso. Perché se ne rende conto? Per l’enormità della pena inflitta. L’esecuzione della pena non è ancora cominciata e già si pente, terrorizzato da quello che lo aspetta. Considera finalmente la sua colpa grande, perché grande, certa e soprattutto immediata è la condanna.

          Caino è il primo pentito della storia della umanità e, come tutti i pentiti, teme le terribili vendette di chiunque lo incontrerà. Teme, come i pentiti di oggi, più le vendette, che la pena in sé. Ma non osa chiedere protezione. È Dio che gliela accorda, proteggendolo con l’imposizione di un segno perché nessuno lo potesse toccare. Quindi nella Bibbia, molto prima della legge Gozzini, l’espiazione si accompagna alla redenzione, al recupero del soggetto, alla speranza.

          Questo dimostra l’infinita benevolenza di Dio, che non abbandona i colpevoli, ma dimostra anche la assoluta contrarietà di Dio alla pena di morte. Ritenuta inutile, controproducente e testimonianza vivente della infinita arroganza degli uomini che si sostituiscono a Dio, che la vita ce l’ha data, nel toglierla. Dio è quindi giusto nel punire il peccato, ma misericordioso nell’applicare la pena. Ogni volta che cambio Codice, ci scrivo sopra la frase di sant’Agostino: «La severità che perdona, la misericordia che punisce». Severamente misericordiosi e misericordiosamente severi. Questa dovrebbe essere la grandezza della giustizia.

          Quanta sofferenza infligge chi uccide? Quanto dolore sparge intorno a sé? Se è giusto che nessuno tocchi Caino, chi sta dalla parte di Abele? Se non c’è limite all’orrore, ci deve essere un limite al perdono. Questa storia che se Caino è Caino, la società ha le sue colpe, mi convince fino a un certo punto. Perché la responsabilità personale è la misura della libertà ed è il libero arbitrio che fa di Caino un essere diverso dalla vittima. Perché se la pena di morte contro Caino ci fa orrore, la pena di morte inflitta ad Abele dovrebbe farcene di più. Quindi nessuno tocchi Abele.

          Oggi nessuno si occupa delle vittime, tutti si occupano del recupero dei tanti Caino sparsi per il mondo, perché nessuna pena sia per sempre. Ma per sempre è la dimensione del mai più, che è propria di chi muore ammazzato. Ed è un mai più, inflitto da una mano omicida, quella di tuo fratello, di un fratello col quale sei cresciuto e che hai amato. La dimensione di Caino è quella della umana fallibilità.

          La dimensione di Abele, soffio e vento – questo è il significato del nome ebraico Hebel –, è quella della morte. La pagina della Bibbia è profonda e misteriosa. E per una volta vi chiedo di stare dalla parte delle vittime, di stare dalla parte di chi non può difendersi. Chiedo la condanna di Caino, in nome di tutti gli Abele del mondo.

LA DIFESA

          Invidia: l’etimologia la collega a un non vedere, a un vedere contro sicché l’altro risulta inviso nel momento stesso in cui si desidera ciò che lui ha o è o realizza a differenza di noi. E Caino sembra non vedere mai il fratello. O perché, con il volto abbattuto, tiene lo sguardo rivolto a terra (Gen 4,5-6), oppure perché si innalza su di lui, sovrastandolo con lo sguardo, guardandolo dall’alto in basso, e arrivando a sopprimerlo (Gen 4,8).

          L’invidia mira all’invisibilità dell’invidiato, a farlo sparire. Solo così ci si può liberare dalla sofferenza che è l’unico portato dell’invidia. Il desiderio frustrato e impossibile dell’invidioso, espresso dalla domanda senza risposta «perché lui sì e io no?», è semplicemente inconfessabile, deve restare nascosto per non svelare l’inferiorità dell’invidioso verso l’invidiato, e diviene collera repressa. Con i disastri che ne derivano. Caino non accetta il proprio limite, limite personalizzato in Abele che, nascendo, lo ha reso fratello sottraendolo alla sua unicità (Gen 4,1).

           E lo ha anche reso, per una volta, non più primo, quando la sua offerta è stata gradita da Dio a differenza di quella di Caino. L’invidia è l’insofferenza verso i propri limiti e chiede, come ascesi, l’arte di imparare a desiderare il possibile. Chiede realismo e adesione alla realtà. Ma richiede anche ciò che è mancato totalmente a Caino: la parola. Se la traduzione greca dei Settanta afferma che Caino rivolse ad Abele le parole «Andiamo in campagna» (Gen 4,8), il testo ebraico ha un vuoto: «Caino disse ad Abele, suo fratello, ... e quando furono in campagna, Caino si innalzò su Abele e lo uccise».

          A Caino è mancata la parola, che avrebbe potuto addomesticare la violenza accovacciata come belva alla porta del cuore di Caino (Gen 4,7); quella parola che, rivolta ad Abele, avrebbe potuto instaurare il dialogo, unico strumento a disposizione dell’uomo per dominare la violenza ed esercitare la mitezza; quella parola che avrebbe potuto far uscire Caino dal circolo infernale e mortifero dell’invidia.

Simonetta Matone, Enzo Bianchi

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