La mia Sicilia può cambiare. La descrizione dell'arsura e dell'attesa mi sembra l'immagine migliore per parlare della mia Sicilia, che conosce un momento di vera e propria siccità umana e spirituale, e attende una pioggia liberante e purificatrice, forse troppo fatalisticamente, come si è abituata a fare data la sua storia di conquiste subite.
«Intorno ondeggiava la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate; il lamento delle cicale riempiva il cielo; era come il rantolo della Sicilia, arsa che alla fine di agosto aspetta invano la pioggia». Così Tomasi di Lampedusa, nel suo capolavoro "Il Gattopardo", descrive la sosta delle carrozze della famiglia Salina durante il viaggio polveroso verso Donnafugata, in una tenuta sul limitare delle terre del Principe. La descrizione dell’arsura e dell’attesa mi sembra l’immagine migliore per parlare della mia Sicilia, che conosce un momento di vera e propria siccità umana e spirituale, e attende una pioggia liberante e purificatrice, forse troppo fatalisticamente, come si è abituata a fare data la sua storia di conquiste subite. Impossibile in poche righe abbracciare con un unico sguardo quella che un conterraneo ha definito perfettamente «l’isola plurale», sì perché a differenza di altre isole in cui tutto è coerente proprio per la condizione di esilio nel mare, in Sicilia tutto è mutevole e contraddittorio, come si trattasse di un arcipelago di isole e di identità. Chiunque la visiti e cerchi di definirne il genio fallisce. Forse per questo Goethe una volta approdato a Palermo scrisse che la Sicilia è la chiave per capire l’Italia. Nel bene e nel male, aggiungo io. Se proprio devo tentare una sintesi, direi che c’è qualcosa che accomuna e unifica tutto: la sua anima composita di luce e lutto. Quando si scende dall’aereo si crede di essere in una terra estranea, perché la luce ferisce, carica di odori e colori. Ma subito alla luce così forte si accompagna il lutto, un diffuso sentore di trascuratezza, di sotterfugio, di irrisione delle regole. Così vedo la mia terra, che ultimamente ho meglio conosciuto grazie agli incontri in innumerevoli città, soprattutto con i giovani. Una Sicilia che ha risorse straordinarie (c’è più Grecia in Sicilia che in tutta la Grecia e so che anche questo ha un doppio senso, come tutto in Sicilia), ma soprattutto ragazzi assetati d’un riscatto personale e regionale. Bellezze e occhi spesso spenti dal disfattismo per una classe politica che meglio di ogni altra rappresenta la folle agonia del nostro Paese: interessi di parte, clientelismi asfissianti, contiguità malavitose, scarsa professionalità. Ho visto negli occhi di quei ragazzi, assetati, il desiderio di quella pioggia liberatoria e la paura che quella pioggia sia solo un miraggio, e che non resti quindi che andar via, a dare il meglio di sé altrove. Ma la Sicilia è anche quella di Siciliani convinti che ad amarla, nonostante tutto, la si cambia, anche a costo della vita. Così lo diceva Paolo Borsellino, che proprio oggi vent’anni fa quel prezzo estremo pagò: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare» e al nome della città si può sostituire quello dell’isola. Ma per molti questo è un prezzo troppo alto da pagare. Come dare loro torto? Ho avuto la fortuna di conoscere padre Puglisi, professore di religione al Vittorio Emanuele II, liceo che ho frequentato a Palermo, e Paolo Borsellino, che partecipava alla Messa domenicale nella mia stessa parrocchia (Santa Luisa). Per questo so che c’è una Sicilia di sognatori silenziosi, lavoratori instancabili, eroi e santi, come pochi se ne vedono da altre parti. Luce e lutto in loro diventano più che mai visibili, come l’anima profonda di questa terra. Arriverà mai questa pioggia? Vedo molti giovani che vorrebbero tornare o non partire, mettere a disposizione i loro talenti per cambiare questa terra, ma molti si scoraggiano o sono costretti a fuggire.
Alessandro D'Avenia
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