A volte ci sembra di tirare avanti, di essere inesorabilmente incastrati in un grande meccanismo, ma sembra che ci sfugga una vita autentica. A qualcuno scappa da dire: «Non ce la faccio più!».
Perché ci alziamo dal letto la mattina? Detto altrimenti, con il fulminante incipit de Il mito di Sisifo di Albert Camus: «Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale». Sì, perché tutti noi ci troviamo a fare i conti con la fatica del quotidiano, che spesso ci logora, con i suoi problemi che sfociano nell’assurdo, nel non senso.
I disagi economici, la gestione del tempo, i dubbi, le piccole e grandi sofferenze… La sfida più grande è davvero quella delle piccole cose di ogni giorno. A volte ci sembra di tirare avanti, di essere inesorabilmente incastrati in un grande meccanismo, ma sembra che ci sfugga una vita autentica. A qualcuno scappa da dire: “Non ce la faccio più!”. A volte si perde la bussola…
C’è, nel Vangelo di Marco, una risposta a questi interrogativi e a queste contraddizioni? Proseguendo nella lettura, il primo capitolo si chiude con una significativa sezione che gli esegeti definiscono la “giornata tipo” di Gesù (cfr. 1,14-45), così strutturata: sommario dell’attività di Gesù (1,14-15); chiamata dei primi discepoli (1,16-20); esorcismo (1,21-28); guarigione della suocera di Pietro (1,29-31); varie guarigioni (1,32-39); guarigione di un lebbroso (1,40-45).
È uno sguardo molto diretto, scandito da una narrazione serrata, sulla quotidianità di Gesù, che sembra molto lontana dalla nostra, estranea. Però, da una lettura attenta possiamo ricavare delle “chiavi” che ci aiutano a rileggere la nostra quotidianità, a darci delle priorità. C’è un particolare che può essere di aiuto nella comprensione, quando viene sintetizzato il messaggio che Gesù predicava nei villaggi della Galilea: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (1,15).
Questo versetto ci chiede una scelta di fondo, mette alla prova le nostre convinzioni: la nostra vita è una nube che passa e svanisce, o va verso un approdo? Navighiamo alla cieca, o abbiamo un porto da raggiungere? Gesù dice di sì! “Il tempo è compiuto”, si legge. È una delle due ricorrenze in Marco del verbo plƒìró≈ç (l’altra è in Mc 14,49: quando Gesù viene arrestato).
È un verbo che significa “compiere”, ma può anche significare “riempire”. Possiamo leggere, allora, “Il tempo è riempito”. Gesù non viveva un tempo vuoto, assurdo. Il suo tempo era pieno di vita, pieno di senso, pieno di orientamento, pieno di relazioni. Proprio quell’ossigeno che a volte ci sembra mancare e ci accorcia il respiro.
Ecco, allora, che la sua parola era vera, significativa: il Vangelo dice che aveva autorità (cfr. 1,22). Era una persona che viveva quel che diceva. Infatti, anche i suoi gesti non erano vuoti. Portavano vita agli altri. Questo è il senso dei racconti di guarigione. Quando incontriamo le persone, noi poniamo gesti e parole di vita, d’incontro, di relazione? Questo fa la differenza.
A volte vorremmo fuggire dal nostro quotidiano, ma la vera sfida è abitarlo, “riempirlo” di vita negli incontri con le persone. È nella quotidianità del loro lavoro che Gesù incontra i discepoli: il luogo della fede non è la chiesa, come spazio separato dal mondo, è la vita di ogni giorno, dove abbiamo la possibilità, piccola o grande, di realizzare comunione, presenza, solidarietà oppure divisione e indifferenza. Spesso, la frustrazione ci sovrasta proprio perché ci sentiamo soli e isolati.
C’è un “segreto” di Gesù, che spiega come riuscisse a riempire il proprio tempo: «Al mattino presto si alzava quando era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (1,35). Dobbiamo lottare per il nostro tempo, per la nostra libertà, per avere spazi di silenzio, ascolto, interiorità. Se no, ci perdiamo, manca unità nel nostro vivere. La preghiera ci fa trovare questa unità.
Christian Albini
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