Inizio e fine, i due misteri della vita

C'è quindi una «vita» che trova il suo compimento nella «vera vita». La vita fisica è substrato e premessa di quella «vera vita» che è l'amicizia con Dio. Si può dunque comprendere che, se uno ha davanti ai suoi occhi una cultura che disprezza la vita fisica in tante occasioni...

Inizio e fine, i due misteri della vita

da Teologo Borèl

del 01 luglio 2009

“La vera vita” è il titolo di un libro scritto da don Luigi Sturzo nel 1943. Aveva come sottotitolo Sociologia del soprannaturale. Questo scritto spirituale di un uomo che si era dedicato soprattutto ai problemi sociali e politici mi illumina nella ricerca di quanto occorra dire per rispondere a un’amabile domanda fattami intorno ai complessi temi della vita. Incominciamo col ricordare (cosa che non sempre si fa) che con la parola «vita» noi intendiamo qui di fatto la «vita umana», e non gli altri fenomeni vitali, per quanto complessi possano essere. In questo senso «vita» è anzitutto opposto a «morte», morte dell’ uomo e della donna, il cui momento preciso non è facile da stabilire - come mostrano le controversie tra gli scienziati - ma le cui conseguenze si manifestano con evidenza nella rapida degradazione di tutto l’organismo. Così, analogamente, non è facile stabilire quando cominci esattamente una vita umana, soprattutto quando un essere possa essere chiamato «persona» o «individuo» e sia soggetto di diritti e di doveri. Rimane però vero che ogni traccia di vita umana, sia nello stadio incipiente come nello stadio finale, meriti rispetto, attenzione, riverenza. È sufficiente che un essere umano abbia un minimo di «vita», che dia qualche segno di attività permanente vegetativa per essere considerato ancora «in vita». Qui nascono alcune grandi questioni etiche, come quelle sulla liceità di intervenire su un essere umano che vive in tempi prolungati soltanto e unicamente (almeno così appare) il momento vegetativo della propria esistenza. Analoga questione si pone sull’inizio della vita: vi sono casi in cui, pur riconoscendo tutto il rispetto dovuto a un essere umano, la sua presenza possa divenire così pericolosa per gli altri che sia giocoforza toglierla di mezzo? Esistono situazioni in cui un tale vivere diventi così insopportabile e apparentemente immodificabile che non sia lecito portare un giudizio morale su chi vi mette fine? Certamente sarà molto difficile affermarlo con il linguaggio delle leggi come dei principi astratti: essi non riescono a cogliere la complessità degli elementi etici, valoriali e affettivi che entrano in ogni singolo caso particolare, ognuno in qualche modo diverso da ogni altro. Mi pare che solo chi è di fatto giuridicamente, emotivamente e affettivamente coinvolto in tali situazioni possa cogliere qualcosa di tale complessità. Nasce anche la grande questione etica se gli «esseri umani», qualunque sia il momento del loro sviluppo o degrado, siano tutti uguali in dignità e meritino tutti un’ identica protezione.

Appare ovvio che c’ è un grado di dignità comune a tutti. Tuttavia non si può negare che vi siano differenze importanti che riguardano il valore della persona e l’ attenzione con cui la società è chiamata a valorizzarla e a proteggerla. A questo proposito ci si riferisce volentieri alla «intoccabilità» o «intangibilità» di un essere umano, alla «dignità intrinseca» che vieta ogni uso strumentale di una creatura umana vivente. Ciò viene detto anche con l’ immagine davvero toccante del «volto». Il «volto» non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. Il volto dell’ altro ci parla per se stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado. In tal caso bisogna rallegrarsi del fatto che molti uomini e donne, anche di differente impostazione culturale, convergano sull’ intoccabilità dell’ essere umano. Negli ultimi decenni la Chiesa Cattolica, soprattutto per bocca dei suoi Papi, è intervenuta in molti modi per la difesa di ogni essere umano, per proclamare la «indisponibilità» di ciascuno di essi dall’ inizio alla fine dell’ esistenza fisica. Per essere più efficace e credibile su questo punto, la Chiesa ha anche ridotto moltissimo la sua tradizionale accettazione della pena di morte, il che rappresenta un progresso innegabile nel senso del «non uccidere» mai e per nessun motivo. Ma l’argomento rimane complesso ed esistono pur sempre delle «zone grigie» in cui si discute con argomenti pro e contro. Infatti quello del puro «sopravvivere» o «non morire per morte violenta» non è certo il traguardo della vita umana: essa tende a quella «vitalità» che è piena espressione della potenza del corpo e della mente. Di qui l’ uso del termine «vita» per designare la carriera storica di un uomo o di un gruppo (ad esempio la «vita di Giulio Cesare») o anche il comportamento morale di un uomo («vita buona») e il suo ambiente sociale («la vita è molto cara qui») ecc. Molte analoghe espressioni usano il termine «vita» in correlazione con i significati fondamentali che abbiamo richiamato, ma il significato che vorrei anzitutto sottolineare è quello che finora non ho menzionato e che si trova abbondantemente documentato nel vangelo e nelle lettere di san Giovanni e in altre pagine della Scrittura. A cominciare dal prologo solenne del IV vangelo («Quel che fu in Lui era vita e la vita era la luce degli uomini» Giovanni 1,4), la parola «vita» indica anzitutto quella qualità che è propria di Dio e che viene partecipata agli uomini grazie alla risurrezione di Gesù.

Si veda ad esempio Giovanni 3,15 «affinché ogni uomo che crede abbia, grazie a Lui, la vita eterna»; «chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi si rifiuta di credere nel Figlio non vedrà la vita». Questa è la «vera vita» di cui parla anche don Sturzo. Questo concetto soggiace a tutto intero il Nuovo Testamento, che ci offre così la ragione ultima per quella «dignità» o «splendore del volto» che ogni uomo anche non credente è spinto a riconoscere nel suo prossimo, anche se non è in grado di individuare sempre le ragioni precise e ultime per l’ inalienabilità e l’ intangibilità di tale prerogativa. C’è di più. Senza questa premessa di fondo sulla natura dell’uomo e della donna chiamati a partecipare alla vita stessa di Dio, non ci riesce facile spiegare come Gesù abbia ritenuto di minor valore la vita umana fisica, tanto da esclamare: «A voi, che siete miei amici, dico: 'Non abbiate paura di quelli che possono togliervi la vita, ma non possono farvi niente di più'» (Luca 12,4) e da esortare a mettere in gioco la propria vita fisica per valori più alti: «Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non produce frutto. Se invece muore, porta molto frutto. Ve l’ assicuro. Chi ama la propria vita la perderà. Chi è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Giovanni 12,34-35). C’è quindi una «vita» che trova il suo compimento nella «vera vita». La vita fisica è substrato e premessa di quella «vera vita» che è l’amicizia con Dio. Si può dunque comprendere che, se uno ha davanti ai suoi occhi una cultura che disprezza la vita fisica in tante occasioni, intervenendo violentemente sulla sopravvivenza di persone indifese, egli senta, come lo ha sentito la Chiesa in questi anni per la voce dei Papi, che già anche soltanto la difesa della vita fisica a qualunque costo costituisce un grande valore e un punto di convergenza importante. Sarebbe errato, però, e ci porterebbe fuori strada, il trarre tutte le conclusioni solo da questo «valore assoluto» della vita fisica. Perché esso in tanto sta in quanto è derivato da un valore molto più grande e veramente intangibile, che tocca il mistero stesso di Dio.

 

card. Carlo Maria Martini

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