Qui si parla del film di Christopher Nolan in lungo e in largo (rivelando il finale) e secondo una chiave di lettura inconsueta: la paternità e l'amore di un padre.
Christopher Nolan ci ha abituati a illusioni e colpi di teatro di ogni tipo. Da Memento, passando per The Prestige, si è divertito a coinvolgere gli spettatori con paradossi logici e azzardi scientifici. Nella trilogia del Cavaliere Oscuro ha cominciato a mettere a tema questioni come la giustizia, la fiducia, il male e la libertà. La grande domanda che attraversa questi film è quella sulla verità: come riconoscere ciò che è vero dall’illusione? Perché mostrare la verità se questa è terribile? Non è meglio illudersi piuttosto che soffrire?
Inception ha portato all’estremo questi temi con la costruzione di un mondo onirico in cui i confini fra la realtà e il sogno si mescolano continuamente. Con questo film però avviene una svolta. I trucchi del regista sono sempre gli stessi, ma ad un occhio attento non sfugge che, questo enorme caleidoscopio di teorie fra lo scientifico e il filosofico, non sono altro che una complessissima e costosissima scenografia. Al centro di tutto non c’è Freud o Einstein, ma un dramma, che ai più può passare inosservato: quello fra un padre e un figlio. Come dimenticare la scena in cui il viziato rampollo si trova al capezzale del padre morente? Certamente nella logica del film si tratta di una finzione, di un sogno, ma quel rapporto è ciò intorno a cui gira tutta la storia. Certo, il tema preponderante del film è il ricordo di lei impossibile da cancellare, il dramma di una morte enigmatica che scuote il protagonista fra l’oblio e la memoria. Ma l’avventura di Cobb con la sua squadra, inizia con la missione di innestare nella mente di quell’uomo un’idea: che l’amore di suo padre era reale. La scena del bunker sulle montagne è il perno su cui tutto ruota. Il vecchio genitore è un uomo crudele e senza scrupoli, ma nel cuore del fragile figlio non è mai morta la speranza che suo padre lo amasse veramente. Ed è proprio su questo punto che Cobb appoggia le possibilità di successo della missione. Come sappiamo, il geniale architetto di quell’ultimo sogno riuscirà nell’impresa, mettendo nella cassaforte la girandola di carta e convincendo il cuore infranto del figlio.
Interstellar approfondisce questo stesso tema, ma in modo ancora più esplicito. In questo caso la scenografia non è costruita sui sogni, ma sulle teorie dei buchi neri. La scelta è azzeccata. Nolan può infatti continuare a sbizzarrirsi con i trucchi che più lo appassionano: la dilatazione dello spazio-tempo, i paradossi, la narrazione su più livelli. Ma ancora una volta tutto ciò costituisce solo una colossale ed incredibile scenografia, niente di più. Se con Inception la vastità infinita era quella che si cela nell’intimità della psiche, in questo film veniamo immersi in un’immensità che sta al di fuori, nell’infinito interstellare.
Cooper è uno dei pochi uomini che non ha mai smesso di lasciarsi attrarre da quell’immensità: «Siamo esploratori, non guardiani». E per dare alla figlia e al mondo una vita migliore, si tuffa nella fredda oscurità dello spazio. Interstellar non è un trattato sui buchi neri, ma la storia di un padre che per amore si allontana dalla figlia ad una distanza che ha dell’eterno. Lei lo bestemmia per questo, non ne capisce la ragione. Tutti mandano messaggi alla nave spaziale, convinti che l’equipaggio possa ancora sentire (ed è così!). Ma dal buio infinito proviene solo un lunghissimo e tetro silenzio.
La scena finale è la chiave di tutto il film. Con il geniale stratagemma della libreria, filtro fra le diverse dimensioni, Nolan dice una cosa chiarissima: quella distanza interstellare non era un’assenza, ma una presenza vicinissima seppur enigmatica, che nell’intimità della casa non aveva mai smesso di lasciare le sue tracce. Il padre era sempre rimasto lì.
All’inizio la parola “stay” è il grido della figlia perché il padre non se ne vada. Poi si scopre che quella parola era il grido del padre alla figlia, perché non smettesse di credere nella promessa che le era stata fatta. «Murph non te ne andare, credi in me».
Interstellar è tutto qui. Probabilmente molti saranno rimasti delusi. Era davvero necessario trascinarci in complicate teorie della fisica per raccontarci solo questo? Forse no, ma ogni grande regista ha il suo modo fabbricare le storie, e a Nolan piace da morire farlo così.
Come il rampollo di Inception implora al padre che il suo amore sia vero, così accade anche in Interstellar. Ma ciò che in quel film era sogno, in questo diventa realtà.
La piccola Murph aveva visto giusto. Nella casa del padre gli era stata fatta una promessa che non poteva non essere mantenuta. Quell’amore non era il sogno di una bambina, l’illusione di una visionaria, ma la forza che muove l’universo. «Ti prego papà dimmi che manterrai la promessa. Sì piccola, un giorno ritornerò».
Isaia Von Fingan
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