Si parte con tanto entusiasmo senza lavorare su se stessi, pensando che far divertire, coinvolgere, essere simpatici, avere tempo a disposizione sia sufficiente...
del 14 luglio 2011
Questione di termini
          Perché dunque parliamo di “animazione pastorale giovanile” e non di “catechesi”? È questione di intendersi sui termini. Di per sé la parola catechesi significa “insegnamento”, usato in questo senso il termine è riduttivo rispetto a ciò che abbiamo in mente, perché così ci sembra, l’attività pastorale con i giovani, pur comprendendo in sé il momento dell’insegnamento non può ridursi a solo insegnamento, o quantomeno non può far consistere l’insegnamento in una semplice comunicazione di notizie.
          Nel linguaggio di molti però, la parola catechesi ha ormai assunto il significato tecnico di “trasmissione della fede”, si dice allora che la trasmissione della fede non può avvenire attraverso un mero insegnare, si dà perciò alla parola catechesi un senso più ampio, di “insegnamento della vita”. Siamo perfettamente d’accordo sul fatto che la fede non possa essere trasmessa attraverso il solo insegnamento, però allora è questione di intendersi sui termini, preferisco l’espressione animazione pastorale, perché è meno ambigua. Vi sono altri che usano la parola “formazione”, anche questa parola non mi piace, perché presuppone un giovane che non ha alcuna forma e che la deve ricevere attraverso l’opera di un “esperto” che scrive per così dire su di lui come su una tavola bianca. Più che di formazione bisognerebbe parlare di autoformazione, il processo di crescita nella fede, come nell’umanità, non può certo essere il frutto di una passività. Il protagonista di questo processo rimane innanzitutto il giovane che cresce, e la funzione dell’animatore non può e non deve essere più che un accompagnare questo processo. La parola formazione del resto è ormai ampiamente in uso nel linguaggio professionale e questo la rende in buona parte inadatta a questo contesto. La pastorale giovanile: Un mistero
          È molto importante conservare nel profondo del cuore il carattere “misterioso” della nostra attività di animazione. Il nostro lavoro non deve partire da un progetto astratto che noi intendiamo imporre sul giovane, ma piuttosto dobbiamo avere sempre nel cuore una domanda chiara: che cosa vuole fare ora e adesso il Signore nella vita di questo giovane uomo in crescita? Ricordiamo sempre che non siamo noi gli autori di questa crescita, noi agiamo come collaboratori. “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor. 1,24) Tutto è mistero in questa attività: è mistero ciò che il Signore vuole fare nel cuore di questo giovane che ho davanti, ed è mistero il fatto che si serva di me per aiutarlo (non ne ha alcun bisogno, e poi perché io?). Come ogni mistero quindi il processo di crescita va guardato con timore e venerazione e con profondo rispetto per l’identità e le peculiarità uniche di ciò che sta avvenendo. Ricordiamo sempre, in ogni momento, che siamo testimoni di un miracolo: Dio, il Dio tre volte santo, il Creatore e Signore, si dà a questa creatura che ho davanti, si fa’ conoscere da lei e la chiama ad essere Figlio e Sposa, e si serve di me per realizzare questo incontro. Solo un’immensa umiltà e la continua consapevolezza del proprio essere inadeguato a questo evento può essere il giusto atteggiamento da parte nostra.
          Si comprende facilmente perciò che ogni giovane va avvicinato come un modello unico. Noi non siamo chiamati a lavorare con i giovani, ma con questo concreto giovane che ho davanti. Sarà per questo che diffido degli esperti di giovani, forse perché tutto quello che ho imparato io, in tanti anni di attività nel mondo giovanile, è che non esistono due storie uguali e che solo il primato dell’ascolto ci garantisce dal commettere errori madornali ed autentiche violenze.
          È mistero naturalmente anche il fatto che il Signore abbia scelto di servirsi di me in quest’opera. Perché? Lui non ha bisogno di me, poteva indifferentemente scegliere un altro per questo ministero, io non sono certo la persona più adatta che conosco per questo compito, anzi, ne conosco tanti migliori di me, con più carismi e più talenti di me, e allora perché io? Del resto poteva anche non servirsi di nessuno, accade a volte che nella vita di certi uomini il Signore fa’, per così dire, tutto da solo, guidandoli per sentieri talmente imprevedibili e bizzarri che nessun altro avrebbe potuto seguirli. Perché non fa’ così sempre?
          In linea generale dobbiamo dire: il Signore fa’ così perché ama la Chiesa, se tutti gli uomini arrivassero a Lui senza mediazioni la Chiesa sarebbe inutile, invece il Signore ama questo popolo affaticato e bizzarro, che arranca sui sentieri della storia per seguire il suo agile passo. Per quanto riguarda poi il “perché io?” l’unica risposta che riesco a darmi in tanti anni è: “perché serve alla mia conversione”. Personalmente non mi sento particolarmente tagliato a lavorare con i giovani, mi sembra di avere le qualità umane e il temperamento che mi renderebbero più adatto ad un lavoro con gli adulti, e invece, da molto tempo ormai, il Signore sempre mi rimanda a questo servizio. Non che non lo accetti con gioia, anzi. Lui è il Signore, faccia ciò che crede, ma non posso non interrogarmi sul perché. Sono felice di lavorare nel mondo giovanile e lo faccio con grande passione ed entusiasmo, tuttavia rimango sempre con questa domanda, perché io?
È un mistero, ed oltre all’atteggiamento di riverente stupore che si diceva prima, bisogna aggiungere che va accostato sempre con timore ed obbedienza. Crescere è una lotta
          Più di altri il giovane è sottoposto alla tentazione e deve perciò imparare presto a combattere. Il mondo in cui viviamo, che ha sottomesso ogni valore morale al primato del denaro, ha imparato ben presto che i giovani sono il mercato potenziale più ampio e fruttifero del mondo e li sfrutta da questo punto di vista senza ritegno. Pensate ad esempio all’immenso mercato della musica e del divertimento (restando nel lecito, non parliamo di pornografia e droga) dove pur di vendere sparisce ogni preoccupazione di coscienza.
          In questa situazione ogni giovane è sottoposto a sollecitazioni pressoché intollerabili, non paragonabili a quelle a cui erano sottoposti i giovani delle precedenti generazioni. L’idolatria della libertà, il culto dell’esperienza, sono strumenti abilmente usati proprio per questa manipolazione di mercato, così che i giovani sono pressoché privi di armi contro queste tensioni. Tutto questo si presenta come un inganno di proporzioni mondiali, e se noi non possiamo lottare contro il mondo intero dobbiamo tuttavia aiutare questo concreto giovane che abbiamo davanti a combattere la sua battaglia. Non si tratta di essere moralisti, non c’è niente di più stupido del moralismo, perché il bene non può essere imposto, ma si tratta di suscitare nel giovane la nostalgia per un altro modo di vivere, per dei valori autentici. Occorre mostrare al giovane la necessità di compiere delle scelte forti, la bellezza di scelte esigenti e totalizzanti, che coinvolgano tutta la persona, anche nell’intimità.
          In uno dei suoi “pensieri” Pascal osserva che a chi dice “lascerei i miei vizi se avessi la fede” bisognerebbe avere il coraggio di rispondere “avresti la fede se lasciassi i tuoi vizi”. È proprio questa incapacità di vincere la tentazione che nella stragrande maggioranza dei casi tiene i nostri giovani lontani dal Signore. Che fare allora? Abbiamo delle armi in questa lotta, che S. Paolo ci elenca: “Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza” (Ef. 6, 13-18).
          In una sola parola tutto questo si riassume nella preghiera. Sarebbe follia accingersi a questo compito senza porre innanzitutto il dovere di pregare incessantemente per i giovani che ci sono affidati, ricordateli continuamente al Signore, e metteteli sempre sotto la sua protezione. Entreremo più tardi nel dettaglio su questa lotta e su come affrontarla, ora mi premeva soltanto mettere in evidenza quale è effettivamente la posta in gioco.
È il Signore che ti chiama
          Non c’è dubbio che nessuno può attribuirsi da sé questo incarico. Da ciò che abbiamo detto è evidente che è un impegno di tale responsabilità e di tale difficoltà che solo la fede in una effettiva vocazione può consentirci di portarne il peso. La domanda allora non sarà “sono capace?” È del tutto ovvio che non lo sei, io non lo sono, nessuno lo è. La domanda invece deve essere: “il Signore ti chiama a questo?” Se infatti è il Signore a chiamarci per questo incarico, lui ci darà anche tutto quello che serve per svolgerlo come lui vuole. Tutto viene da Dio e questa opera è la sua opera, non la nostra, ancora una volta ripeto che noi siamo solo collaboratori, è Dio che agisce e da questo deriva la nostra certezza e la nostra fiducia. 
          Occorre perciò un attento discernimento nella preghiera, per verificare se, al di là dei miei desideri il Signore davvero ci chiama a questo. Questo corso che stiamo svolgendo vuole essere per l’appunto un concreto aiuto in questo discernimento. Il bisogno di amore 
          Normalmente si distingue tra bisogno di essere amato e bisogno di dare amore, in verità mi sembrano piuttosto due aspetti d un unico problema, quello delle carenze nell’area affettiva, per cui considererò questi due bisogni come uno unico: il bisogno di amore appunto.
Prima ipotesi: il ricatto affettivo  
         Questa distorsione è parallela a quella che abbiamo già visto del dominio, in effetti è un altro modo di esercitare il potere, attraverso l’affetto e non attraverso la violenza, ma con gli stessi fini, ovvero il bisogno costante di sentirsi amati da qualcuno, il gusto di sentirsi dire: “ma com’è bello l’animatore, ma com’è simpatico, ma come gioca bene” ecc. In effetti chi non ha raggiunto una certa maturità in quest’area della personalità dimostra di essere eterodipendente, incapace di stare da solo con se stesso. Mette in atto allora una complessa strategia in cui il giovane viene usato come uno strumento per la compensazione delle mie carenze. È una tentazione che si manifesta soprattutto verso giovani del sesso opposto a quello dell’animatore (senza nessun sospetto moralistico per carità), spesso in una ricerca eccessiva del contatto fisico (carezze, baci, abbracci ecc. Possono essere, se dati al momento appropriato, molto buoni, ma fuori luogo sono quanto mai diseducativi, sono tentativi di legare affettivamente a sé la persona). Dio non voglia poi che sorga un conflitto tra l’animatore e il suo superiore, in questo caso è quasi inevitabile che i giovani siano aizzati contro quest’ultimo, reo di “lesa maestà”. Evidentemente vale anche in questo caso ciò che detto a proposito della dipendenza nell’ipotesi A1. Non è molto importante in questa ipotesi se prevale il modello attivo o quello passivo, ovvero se prevale il bisogno di dare amore o quello di essere amato, poiché c’è un modo di dominare, più subdolo e strisciante, anche attraverso una apparente passività.
Seconda ipotesi: l’affronto personale 
          È tipico in chi non ha risolto le proprie carenze affettive vedere tutto come riferito a se stesso. Ogni contestazione allora, anzi, ogni disaccordo sarà visto come un affronto personale, rendendo l’animatore incapace di un corretto discernimento su ciò che gli viene proposto in quel momento. Poiché il processo di dipendenza del giovane e il suo identificarsi nell’animatore devono avere un termine perché il giovane possa giungere alla maturità, e generalmente questo avviene attraverso una ribellione traumatica, soprattutto se l’animatore non è stato all’altezza, chi non è libero in quest’area non saprà vivere serenamente questo momento, spesso caricando il giovane di sensi di colpa ingiustificati.
Terza ipotesi: non mi servi! 
          Un grande rischio di un animatore che non è affettivamente sereno ed integrato è quello di dare spazio e responsabilità all’interno del gruppo solo a quelle persone che lo corrispondono affettivamente. Poiché quel giovane mi tratta con freddezza, anch’io lo tratto con freddezza, invece il vangelo ci insegna diversamente: “se date il saluto solo a quelli che vi salutano che merito ne avrete?”. Inoltre è fondamentale che l’animatore sappia delegare il più possibile autorità e compiti, perché non c’è niente come l’esercitare delle responsabilità che insegna ad essere responsabili. Un animatore equilibrato saprà generare altri animatori e co-animatori.
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