Io che lapidavo le donne in Afghanistan, ora vivo solo per testimoniare la verit...

Il nuovo Afghanistan non viene dalle armi né dai programmi umanitari dell'Occidente. «Non esisterà finché non cambieranno gli afghani».

Gli occhi del ragazzo erano abituati a quello spettacolo. Dodici anni, e già Farhad aveva visto le teste staccarsi dal busto dei condannati sotto il potente colpo della mannaia, corpi di donne imbustati nei loro burqa afflosciarsi sotto i lanci delle pietre. Le sue orecchie avevano ascoltato le grida imploranti di uomini e donne che chiedevano di avere la vita risparmiata, le urla di dolore dei suppliziati. In quegli anni nello stadio di Kabul le uniche cose rotonde che rotolavano sul terreno di gioco erano le teste dei condannati, e le grida della folla invasata non incoraggiavano calciatori né insultavano arbitri, ma piuttosto intimavano ai boia di non avere pietà.

Nella Kabul senza alcol né tivù né sport né musica dei talebani, la gente si stordiva con lo spettacolo della violenza, si inebriava del sangue e della sofferenza altrui. Farhad era come loro, esattamente come le migliaia di adulti e di ragazzi, tutti maschi, che spontaneamente, senza alcuna costrizione, il venerdì si recavano allo stadio per assistere alla massima punizione dei peccatori. Senza alcuna vergogna o sentimento di pietà, anzi col senso di esaltazione di chi partecipa a un’opera di giustizia crudele ma necessaria: la purificazione della società dai suoi parassiti, destinati al fuoco dell’inferno.

Ma quel giorno Farhad vide e udì qualcosa che non aveva mai visto e ascoltato prima. Un padre che teneva per mano, stringendole come in una morsa, due bambine di 8 e 10 anni, mentre di fronte a loro veniva condotta, legata e coperta dal burqa, la madre di quelle bambine, condannata alla lapidazione per un’accusa di adulterio. Il volto contratto dall’odio dell’uomo, le faccine sconvolte dal dolore, pallidissime e rigate di lacrime delle ragazzine. Le guardie che sciolgono la madre e le permettono di abbracciare per l’ultima volta le bambine. Le guardie che strappano le ragazzine da quell’abbraccio che nessuna delle tre voleva terminare. Le voci disperate della madre e delle figlie che implorano di non essere separate, gli insulti del padre e marito che augura l’inferno alla donna. La pioggia di pietre lanciate dai volonterosi carnefici usciti dal pubblico contro la vittima indifesa, sotto gli occhi delle bambine che il padre ha riafferrato per le mani.

«Io non avevo mai provato sensi di colpa, quelle crudeltà mi sembravano il giusto prezzo pagato dai peccatori per i loro misfatti. Non ho mai visto nessuno esprimere pietà per le vittime nello stadio: quando un condannato non moriva subito, la gente inveiva perché l’esecuzione fosse portata a termine. Ma i volti di quelle bambine mi sono rimasti dentro. Le loro grida e quelle della mamma mi risuonano ancora nell’anima. Quel giorno ho provato davvero disagio, e ad assistere alle lapidazioni non ci sono più andato. Tanto meno a lanciare le pietre. Perché anch’io, in passato, avevo partecipato alle lapidazioni. Sì, a dodici anni io ho lapidato due donne insieme alla folla».

 

Il segreto per sopravvivere

 

Gli occhi di Farhad non sono più quelli di un ragazzo spietato come il mondo intorno a lui. Sono diventati gli occhi scuri e virili di un 27enne. Ancora privi di vergogna, mentre allinea terribili ricordi del passato. Ma non per mancanza di sensibilità. È che tutto lo spazio dentro all’anima è stato occupato da un unico sentimento: la risolutezza. I suoi occhi sono quelli di un giovane uomo che ha deciso di cambiare radicalmente la propria vita, e di trasformarla in una missione al servizio della verità. Da due anni è profugo in Italia. Dietro di sé ha lasciato il rischio immediato di essere ucciso dai talebani, che lo hanno gravemente ferito in un attentato nell’aprile 2011, ma anche ricchezza e potere.

Non è un povero diavolo afghano qualunque, Farhad, è figlio di un generale dei mujaheddin, uno degli uomini più fidati del presidente Karzai. Quando andava allo stadio ad assistere alle esecuzioni capitali nella Kabul talebana, suo padre Mohammad Qasim Bitani era prigioniero a Kandahar. Aveva combattuto nelle file dei guerriglieri di Massoud, il leone del Panshir, al cui gruppo si era unito ai tempi della presidenza di Najibullah, il presidente afghano filosovietico che poi sarà torturato e assassinato dai mujaheddin. Aveva partecipato alla guerra interna fra i mujaheddin dopo la presa del potere e poi a quella contro i talebani. Questi ultimi lo avevano catturato quando erano entrati da vincitori in Kabul nel 1997.

Farhad, sua madre e gli altri fratelli erano riusciti a confondersi nella popolazione civile della capitale, nessuno sapeva della loro parentela con il generale di Massoud fatto prigioniero. I ragazzini avevano subito imparato a tenere il segreto: «In giro dicevo che ero figlio di un autista, ma avevo sempre paura». Nel 1999 Mohammad Bitani riesce ad evadere dal carcere di Kandahar insieme ad altri futuri alti esponenti del governo di Karzai, grazie a un capo talebano che hanno corrotto. La famiglia si riunisce in Iran, dove vivrà fino al momento dell’intervento militare americano nel novembre 2001. A quel punto fanno ritorno in Afghanistan per unirsi ai mujaheddin dell’Alleanza del Nord, che aveva ripreso le armi contro i talebani grazie al formidabile sostegno degli americani. La vittoria sugli uomini del mullah Omar e su al Qaeda sospinge nuovamente la famiglia Bitani verso i più alti gradini del potere e della ricchezza, Mohammad è nominato comandante militare della regione di Paktia. Ma i rischi sono sempre altissimi: due volte elementi talebani cercano di ucciderlo in altrettanti attentati che causano vittime e feriti.

 

Gli studi in Italia

 

Karzai allora invia Bitani a Roma come addetto militare dell’ambasciata. Farhad viene iscritto all’accademia militare di Modena, poi due anni dopo si trasferisce alla scuola militare di Torino. Fra il 2006 e il 2011 fa la spola fra l’Italia, dove prende i gradi di capitano, e l’Afghanistan, dove viene ogni volta ricevuto con gli onori e i timori che si riservano al figlio di un grande capo. «In Afghanistan, i mujaheddin e i loro figli possono fare quello che vogliono, gli è sempre garantita l’impunità», racconta Farhad. «C’erano miei compagni che visitavano le scuole per trovare qualche bella ragazza da prendere con sé. Le prelevavano, ragazze di 14 o 15 anni, e le costringevano ad avere rapporti sessuali con loro. Dopo, erano fortunate se le prendevano come loro concubine, perché le famiglie non le volevano più in casa e le uccidevano per la vergogna. Ai mujaheddin invece non succedeva niente, nessuno osa protestare».

«Certe leggi crudeli del tempo dei talebani non ci sono più, non si vedono più la mattina mani amputate appese agli alberi lungo le strade, come mi capitava di vedere a Kabul da ragazzo dopo le notti nelle quali erano state eseguite le pene corporali contro i ladri. Ma ancora ci sono leggi che puniscono con le frustate il consumo di alcol o il sesso con le prostitute. Mentre i nostri padri esaltavano nei comizi o alla televisione la morale islamica, e i poveri diavoli che venivano scoperti a bere alcolici venivano frustati, noi figli andavamo a Dubai a ubriacarci e a fare sesso, senza che nessuno avesse nulla da rimproverarci».

«Quando tornavo in Afghanistan dall’Italia, amici e conoscenti mi chiedevano di portare loro alcol di contrabbando. A tutti i cadetti si chiedeva di portare prodotti vietati nel paese. Una volta mi è toccato fare compere in un sexy shop, perché un mio amico doveva regalare a un suo compagno una vagina artificiale per il suo compleanno!».

Poi c’è il capitolo degli arricchimenti illeciti, sul quale Farhad è molto loquace, ma pure si rifiuta di fare nomi. «Gli americani e il resto del mondo dal 2001 hanno riversato sull’Afghanistan quasi 100 miliardi di dollari di aiuti militari e umanitari, ma alla popolazione ne è arrivato appena un decimo. Il resto è stato intascato dalle nostre famiglie, attraverso innumerevoli forme di corruzione. La più comune è la sovrafatturazione negli appalti per le forniture di beni, infrastrutture e materiali vari pagati con gli aiuti dell’Occidente. Sono operazioni che si svolgono con la complicità di diplomatici e militari di tutti i paesi che sostengono il governo afghano. Perché una parte dei soldi ritorna a loro sottobanco».

 

Quando ero un fondamentalista

 

L’abbrutimento non ha limiti. La pedofilia, largamente diffusa nel centro-sud del paese, è formalmente vietata dalla legge, ma tollerata e anche praticata abitualmente da coloro che avrebbero tutto il potere, legale e di fatto, per reprimerla. «Alle feste dei mujaheddin non mancano mai i ragazzi truccati come donne che ballano per gli invitati con campanellini e cembali alle caviglie», racconta Farhad.

«Più sono carini i ragazzini, e più l’adulto che si accompagna con loro è ammirato. Io non ho mai avuto rapporti con minori, ma ho partecipato a queste feste. Anch’io ho gridato, applaudito e lanciato banconote verso i bambini che danzavano per noi. Ma quando mi offrivano di appartarmi con qualcuno di loro, trovavo una scusa per astenermi. Invece tanti uomini più vecchi di me ne approfittavano con entusiasmo. C’è un ricordo che mi tormenta. A una festa matrimoniale erano stati portati tre bambini truccati per danzare nel salone riservato agli uomini. Il più piccolo dei tre, avrà avuto 9 o 10 anni, era timido e impaurito, e si rifiutava di ballare. Tutti lo incoraggiavano con risate sguaiate, ma lui si ritraeva. A un certo punto un mujaheddin ultraquarantenne con una grande barbaccia l’ha afferrato e l’ha baciato con la forza, dicendo: “Non ha voglia di danzare, perciò vado a divertirmi con lui da un’altra parte”. Si è alzato e si è trasferito in una stanza più interna dell’edificio trascinando con sé il bambino, che gridava e piangeva disperato. Quella scena mi offendeva. Io ero il figlio del generale Bitani, e se fossi intervenuto, avrei potuto impedire quella violenza carnale. Invece ho lasciato fare».

Dieci anni di conflitto in AfghanistanUna profonda crisi di coscienza sta covando dentro al cuore di Farhad. Il soggiorno in Italia ha contribuito in misura decisiva a innescarla. «Come quasi tutti gli afghani, sia mujaheddin che talebani, io ero un fondamentalista islamico nell’anima. Disprezzavo gli infedeli, pensavo che tutti quelli che non erano musulmani sarebbero andati all’inferno, e che sarebbe stato giusto che l’islam trionfasse con le armi in tutto il mondo. Ma in Italia ho conosciuto tante persone migliori di me: non erano afghani e non erano musulmani. Così ho cominciato a cambiare il mio modo di pensare».

La svolta decisiva avviene il 3 aprile 2011. Farhad è andato a visitare una zia a Laghman; lungo la strada per rientrare a Jalalabad, da cui proviene, cade in un’imboscata che i talebani hanno preparato contro di lui. Benché colpito riesce a mantenere la guida del suo fuoristrada e ad accelerare fino a portarsi fuori della portata dei proiettili. Sopravvive alle ferite e poco tempo dopo prende un volo per l’Italia: la sua domanda di asilo viene accolta immediatamente. «Non sono veramente sopravvissuto», racconta con gli occhi che gli luccicano. «Quel giorno è morto il vecchio Farhad, e ora la mia vita appartiene tutta a Dio. Lui mi ha risparmiato dalla morte quel giorno perché io capissi che aveva una missione da affidarmi. Io devo testimoniare la verità davanti a tutto il mondo, devo confessare le ingiustizie che si compiono in Afghanistan. Il mondo deve sapere, e il popolo afghano deve cambiare la sua mentalità come io ho cambiato la mia».

Farhad sta scrivendo il libro delle sue memorie. Lui che in Afghanistan era ricchissimo e potentissimo, in Italia vive lavorando per un’associazione di immigrati afghani. «In Afghanistan voi occidentali avete ricoperto d’oro i fondamentalisti islamici: prima i mujaheddin contro i sovietici, poi i talebani che facevano il gioco del Pakistan alleato degli americani, poi di nuovo i mujaheddin contro i talebani. Tutti fondamentalisti e tutti ipocriti: in Afghanistan la religione è un pretesto per il potere politico e per l’arricchimento. Sì, i talebani sono dei fanatici religiosi, ma anche loro non disdegnano di fumare l’hascisc o di accompagnarsi coi ragazzini, non esitano a uccidere i civili: queste cose l’islam le proibisce. Adesso tutti mi accusano di non essere più un musulmano, di essere un apostata passato al cristianesimo, ma quelli che non sono mai stati davvero musulmani sono loro: un giorno dovranno affrontare il giudizio di Dio». Farhad sa che quel giorno verrà anche per lui. Per questo ha preso una decisione che gli ha cambiato l’esistenza.


 

Di Rodolfo Casadei

Tratto da http://www.tempi.it

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