Ci sono cose che solo una madre e un figlio sanno. Di quelle non parlerò. Fanno parte di ciò che rende un uomo uomo o un uomo meno di un uomo. Anche se noi non lo capiamo, un senso c'è, sempre. Ci vogliono i riti, avrebbe detto il Piccolo Principe alla volpe. Sono quello che ci salva quando le cose fanno naufragio. Tu me li hai insegnati e continui a farlo.
del 19 aprile 2011
 
 
                 Ci sono cose che solo una madre e un figlio sanno. Di quelle non parlerò. Fanno parte di ciò che rende un uomo uomo o un uomo meno di un uomo.
          C’è però un rito che voglio ricordare e di cui ti sarò sempre grato. È una cosa piccola, ma ha dentro tutto. Quando iniziai il liceo e affrontavo le versioni di latino e di greco, spesso mi incagliavo tra le secche del lessico da scegliere o gli scogli di una sintassi che non tornava mai. Così si consumava quel rito serale. Mi avvicinavo al divano dal quale distrattamente guardavi la televisione, mentre facevi mille altre cose. Non credo tu abbia mai guardato un film per intero in vita tua. Sei figli sono un colossal continuo che non ammette distrazioni…
          Portavo il libro di latino o di greco, i rispettivi vocabolari e leggevo la traduzione ad alta voce. Ma prima ancora che io leggessi tu partivi e traducevi sul momento, quando non ricordavi qualcosa intervenivo io a suggerire un significato (spesso sbagliato perché trovavo termini che non c’entravano nulla…) e allora andavi avanti. Non insegnavi quelle materie. Le ricordavi dai tempi del liceo, durante il quale, me lo hai raccontato tante volte, in una classe di sette o otto ragazze, eri interrogata quasi tutti i giorni e ricordavi ancora i paradigmi a memoria.
          Io a volte non avevo bisogno di quel rito, te lo rivelo adesso. Magari ero riuscito a capire da solo la versione (evento comunque non frequente, soprattutto per il greco), ma volevo che tu mettessi in ordine tutto. Come hai sempre fatto: dagli armadi ai dolori, dalle torte alle vite. Mi dava pace, mi toglieva la paura delle interrogazioni. C’era calma in quel rito, c’era l’ordine del mondo e c’era un dialogo silenzioso fatto di fiducia e sfida. Ripetevi sempre che era facile, soprattutto il greco, che amavi di più. Per me niente era facile, ma mi fidavo. Così ho cominciato ad amare anche io il greco e poi l’ho scelto per laurearmi, dottorarmi, insegnarlo. C’è stato un momento in cui cominciavo a saperne un po’ di quelle lingue, ma venivo lo stesso, a ripeterti quello che avevo fatto.
          Tradurre o controllare la traduzione era il rito con cui tu e io mettevamo a posto il mondo, anche quando il mondo attorno a noi era nel caos e tu sai perché. Quelle versioni, quella sintassi riordinata, quei cum narrativi, quegli ablativi e genitivi assoluti, quelle interrogative indirette erano il codice che una madre e un figlio avevano trovato per dirsi, che nonostante tutto, sarebbe andato tutto bene, nelle traduzioni come nella vita. Forse a volte la traduzione non era perfetta o rimaneva oscura, ma sapevamo, tu più di me, che quel testo aveva senso, anche se io non lo capivo del tutto e magari a volte qualcosa sfuggiva anche a te. Il mondo aveva un senso. Non sempre noi lo capivamo, ma ci fidavamo di questo e tu mi aiutavi a fidarmi del mondo, perché potevo fidarmi sempre di te, di quel rito. Per questo forse ti chiami Rita, perché mi hai insegnato che la vita non è facile, non è comprensibile spesso, ma l’eleganza è sempre possibile, la fiducia è sempre possibile, la compagnia è sempre possibile.
          Anche se noi non lo capiamo, un senso c’è, sempre. Ci vogliono i riti, avrebbe detto il Piccolo Principe alla volpe. Sono quello che ci salva quando le cose fanno naufragio. Tu me li hai insegnati e continui a farlo. Sono sicuro che un giorno farai lo stesso quando arriverò impreparato all’interrogazione finale, ci sarai tu ad aiutarmi, ancora una volta.
Alessandro D'Avenia
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