Recensione del film "Io sono con te"...da non credente Chiesa dichiara di accostarsi a questa figura storica con interesse e rispetto, cogliendo la portata straordinaria di una donna in cui per la prima volta una religione vede il principio della salvezza.
del 29 dicembre 2010
Titolo originale: Io sono con teRegia: Guido ChiesaSceneggiatura: Guido Chiesa, Nicoletta Micheli, Filippo KalomenidisProduzione: Magda Film/Colorado Film/Rai CinemaDurata: 102'Interpreti: Nadia Khlifi, Rabeb Srairi, Mustapha Benstiti, Ahmed Hafiene, Carlo Cecchi, Giorgio Colangeli, Fabrizio GifuniGenere: Dramma
          Nel povero villaggio di Nazareth, duemila anni fa, una giovane donna, Maria, rimasta misteriosamente incinta, cresce il figlio Gesù secondo principi di amore e seguendo la natura, in aperto contrasto con la mentalità maschilista, violenta e legalista della cultura ebraica dell’epoca. Quel bambino diventerà il profeta più rivoluzionario della storia…          Recensione           Vedendo l’amore e la devozione di cui circonda, anche visivamente, la sua protagonista non si può dubitare della sincera ispirazione e alla buona fede di Guido Chiesa, cineasta e documentarista alle prese con la vicenda di una madre assolutamente speciale, Maria di Nazareth.
          Da non credente Chiesa dichiara di accostarsi a questa figura storica con interesse e rispetto, cogliendo la portata straordinaria di una donna in cui per la prima volta una religione, il Cristianesimo, vede il principio della salvezza.
          Questo approccio senz’altro positivo non impedisce allo spettatore di rimanere un po’ deluso di fronte ad una pellicola che, se pure offre momenti e intuizioni suggestivi, manca però del senso del sacro che ci aspetteremmo da un film dedicato a questo tema ed esaurisce l’eccezionalità dell’uomo (prima ancora che del Figlio di Dio) Gesù nelle pur straordinarie doti educative della sua genitrice.
          Maria sembra, infatti, una sorta di pedagogista montessoriana ante litteram che, fidando sul suo legame con la natura, che osserva spesso e con attenzione, si mette di traverso alla cultura ebraica del tempo, maschilista, legalista e violenta.
          Significativa, anche perché in aperta contraddizione con il dettato evangelico cui invece Chiesa dice di essersi sostanzialmente attenuto, è la strenua opposizione alla circoncisione (anche il parto nella grotta di Betlemme è il risultato di un piano di Maria per sottrarsi al controllo di famiglia e società nei primi giorni di vita del bambino), vista come atto di violenza primario sul bambino, destinato a segnarlo per sempre.
          Salvando Gesù da questa esperienza traumatica e lasciandolo libero di dispiegare la sua natura (che non sembra tuttavia avere nulla di particolarmente divino, come riconoscono anche i magi, qui sorta di sapienti poco pratici alla ricerca di un Messia attraverso test da psicologia contemporanea), Maria pone le basi (e anche qualcosa di più) dell’uomo che sarà.
          Se è apprezzabile la valorizzazione nella storia della salvezza della libertà “creativa” di Maria, capace di superare il legalismo fatto di mille divieti della religione ebraica dell’epoca in nome dell’amore per l’altro, sembra strano che in un contesto che pure si vuole storicamente ricostruito, sia assente la sottolineatura dell’attesa messianica che illuminava anche l’altrimenti sterile formalismo di un certo ebraismo e che era nel cuore di ogni donna ebrea in attesa di un figlio.
          È questa un’assenza, ci perdoni il pur informato regista, molto poco storicamente attendibile, ma assai significativa in una prospettiva in cui Gesù è necessario al massimo come diffusore maschile, al di fuori dello spazio familiare, di una sapienza totalmente femminile e un po’ sciamanica che vive il rapporto con Dio in uno spiritualismo naturalistico e personale che nulla ha della dimensione di popolo della religione ebraica.
          Ci si dimentica quanto, nel racconto evangelico, la vicenda esistenziale di Maria respiri della cultura e della religiosità di tutto un popolo: basti pensare alle parole del Magnificat e di come riverberino la letteratura salmistica rinnovandola alla luce dell’Avvenimento dell’Annunciazione.
          Se davvero tutto l’insegnamento di Gesù si può ricondurre a questi primi attimi, giorni e anni accanto a cotanta madre non si capisce perché poi il Cristo si sia dato la pena di parlare agli uomini dell’amore paterno di Dio né di sacrificarsi sulla croce per la Redenzione dell’umanità.
          Difficile arrivarci da qui anche a causa della debolezza della figura di Giuseppe, sempre un po’ passivo e in secondo piano, ora oppresso dai fratelli rigidi padri padroni, ora superato “a sinistra” dalla sua sposa poco più che bambina, mai comunque parte di un processo educativo che di fatto lo esclude.
          Quella Maria che “medita nel suo cuore” il miracoloso dispiegarsi della volontà di Dio nel suo ventre prima e nel mondo poi, così come ce la racconta San Luca (l’evangelista storiografo d’ispirazione tucididea, anche qui evocato nel finale, che ebbe proprio nella Madonna la sua prima testimone oculare) si trasforma in un’adolescente sempre sorridente (anche troppo) e testarda, il cui credo di “non violenza” ha qualcosa di davvero troppo moderno e riduttivo rispetto alla figura dei vangeli e della tradizione cristiana.
          E umano “troppo umano” appare questo Gesù bambino e ragazzino (non è un caso che dopo il salto temporale la macchina da presa vaghi tra i volti di bambini che tutti potrebbero essere il futuro Messia), capace di accostarsi ad un indemoniato respinto dalla società e di contestare in chiesa il rabbino e pronto a restare sconvolto dal sangue dei sacrifici del Tempio
          Solamente un po’ ridicoli invece i Magi, nella versione di Chiesa un gruppo di sapenti orientali alla corte di Erode a fare esperimenti di intelligenza a metà tra il test psicologico e le prove di riconoscimento del Dalai Lama nei dintorni di Nazareth.
          La loro discussione (in un greco antico che suona un po’ surreale) è l’ennesima didascalica articolazione della tesi suggestiva quanto poco ragionevole (nel senso di inadeguata a cogliere tutti i fattori in gioco) del film di Chiesa, di cui non si può non apprezzare l’impeto sincero e il rispetto per il proprio oggetto, ma a cui non si può fare a meno di imputare per lo meno un certo difetto di esperienza che finisce per rendere elusivo un oggetto che lui pure percepisce così concreto.
Laura Cotta Ramosino
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