L'Iraq suona come una vecchia storia già sentita lungo tutto lo scorso decennio. Proprio per questo papa Francesco, ha scosso le coscienze ricordando il dramma di una popolazione da dieci anni alla mercé della violenza di fanatici e del cinismo dei partiti settari.
Seimilacinquecento civili morti nelle violenze in Iraq in nove mesi, quest’anno. Il numero più alto dal 2008. Se non vi sembrano ancora tanti, va aggiunto che il loro numero cresce costantemente: più di mille nel primo trimestre 2013, più di duemila nel secondo, più di tremila nel terzo. E le stime per questi ultimi tre mesi sono di almeno quattromila. Secondo le teorie degli analisti, mille vittime al mese a seguito di scontri politici è il limite oltre il quale si parla di guerra civile.
Dunque l’Iraq, che era faticosamente uscito dai terribili anni seguiti alla disastrosa invasione anglo-americana del 2003, sembra voler marciare verso un nuovo bagno di sangue settario. Il tutto nel sostanziale disinteresse internazionale: gli americani non hanno alcun incentivo a tener vivo il ricordo di una delle loro più infelici avventure militari; gli Stati mediorientali usano il Paese come un campo di battaglia per le loro rivalità e fanno poco o nulla per evitare il degenerare della situazione. L’opinione pubblica europea, quando non pensa ai suoi numerosi problemi, si concentra su crisi più vicine, come quella siriana e quella libica.
L’Iraq suona come una vecchia storia già sentita lungo tutto lo scorso decennio. Proprio per questo papa Francesco, ieri, ha scosso le coscienze ricordando il dramma di una popolazione da dieci anni alla mercé della violenza di fanatici e del cinismo dei partiti settari. Va detto che le ragioni di questo ritorno sull’orlo del baratro sono molte. Innanzitutto, via è la ripresa degli attacchi suicidi di al-Qaeda, diretti a terrorizzare la popolazione civile arabo-sciita; il terrorismo jihadista ha dimostrato di sapersi rigenerare velocemente e, soprattutto, di saper 'fare sistema', mettendo in collegamento i vari fronti regionali, quello siriano in particolare.
Ormai, Siria e Iraq fanno parte di un unico scacchiere in cui si combattono da un lato sunniti salafiti e jihadisti (appoggiati dagli Stati arabi del Golfo) e sciiti sostenuti dall’Iran dall’altro. Ma pesanti sono anche le responsabilità del primo ministro al-Maliki, giunto quasi alla fine del suo secondo mandato. In vista delle elezioni della primavera 2014, sta cercando con ogni mezzo di ottenere un terzo mandato, imponendosi quale referente di un’alleanza che faccia perno sugli sciiti, benché sia osteggiato da buona parte degli stessi partiti sciiti e dai vertici religiosi iracheni, che non amano la sua deriva autoritaria.
Il governo di Baghdad, durante l’ultimo anno, ha di fatto aggravato volutamente lo scontro con la minoranza arabo-sunnita, colpendo alcuni dei suoi uomini simbolo e esacerbando la loro sensazione di essere esclusi e marginalizzati nel nuovo Iraq post-Saddam. Gruppi tribali e milizie sunnite sono così tornate a tollerare la presenza qaedista, rafforzando la loro collaborazione con gli insorti oltre frontiera, che combattono Assad in Siria.
A peggiorare il quadro, vi sono le crescenti rivalità di potere interne ai movimenti arabo-sciiti e una frammentazione continua dei principali partiti, a vantaggi di potentati locali e di capi tribali. Insomma, la ricetta ideale per rendere ancora più esplosiva la situazione e inefficiente il funzionamento degli organi istituzionali. Con il rischio che anche le prossime elezioni possano finire nel gorgo delle violenze, venendo rimandate o manipolate. Un pericolo da evitare a ogni costo. Fra i pochi frutti della caduta di Saddam vi è proprio il fatto che in Iraq la popolazione possa votare, scegliendo a quale partito dare il proprio sostegno.
Con tutte le sue fragilità, questa democrazia incompiuta deve essere tutelata da parte della comunità internazionale. Vi sono ancora canali e mezzi di pressione su tutte le fazioni irachene: usiamoli senza fare troppi calcoli su che cosa convenga a chi. E senza rassegnarsi alla prospettiva di un’ennesima delusione e del solito previsto fallimento, come avviene spesso quando vi è di mezzo il Medio Oriente.
Di Riccardo Redaelli
Tratto da http://www.avvenire.it
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