O forse è questa la condizione del credente, di doversi affidare a ciò che non offre oggettivamente affidamento? Allora, il paradosso di Tolstoj è un compiuto segno del paradosso di ogni fede.
del 25 novembre 2009
 
 
Il paradosso di Tolstoj starebbe in questo: come può essere motivatamente accettato e come potrebbe bastare un cristianesimo senza paradossi, e solo ridotto ai cinque precetti del discorso della montagna (così riassunti da Nietzsche nei frammenti sulla volontà di potenza: «Non vi adirate; non commettete adulterio; non prestate giuramento; non vi difendete con la forza; non fate guerra»), per una vita e per una storia, che i paradossi della ragione inchiodano al non-senso?  
 
Tutta la questione starebbe, come ha indicato Philonenko, nel contestare a Tolstoj il buon diritto di mettere il «servire Dio» al posto della schopenhaueriana «conoscenza della vanità della vita umana». «Servire Dio» è la formula finale con cui Tolstoj indica la sua dimensione cristiana; in Non ci sono colpevoli a questo mondo, che è stato rimaneggiato nell'agosto e settembre del 1910, dunque un paio di mesi prima della morte, Tolstoj la mette in bocca a uno dei ricorrenti personaggi, plebeo-contadini, portatori del messaggio e della salvezza, al non violento Mitjecka, che si esprime in questo modo tanto antimarxistico: «Tutto il male, tutti i peccati del mondo non hanno come causa che degli uomini cattivi facciano torto agli altri uomini, li abbiano spogliati della terra, li defraudino delle loro fatiche; ma hanno come causa il fatto che gli uomini stessi non vivono secondo la legge divina». In una nota del diario dell'11 novembre 1891, è proprio Tolstoj che propone la sostituzione indicata: «Ho letto gli aforisrni di Schopenhauer. Molto bene. Molto bene.
 
Solamente mettere: 'servire Dio' al posto di 'la conoscenza della vanità della vita umana' e siamo d'accordo». È possibile superare Schopenhauer con questo volontarismo di significati, dopo averlo tanto subìto? È possibile troncare così l'uso spietato della ragione, quel non dar nulla ad intendere al pensiero, che ha permesso ad André Maurois di riassumere il senso di Tolstoj in quella espressione, tratta dai Racconti di Sebastopoli, «il mio eroe, è la verità» ?
 
Detto altrimenti, e con l'occhio rivolto alla vita della terra e della storia: di fronte alla immane potenza del negativo basta per salvare l'uomo una dottrina della pura non violenza, anche se è vero quanto osserva Italo A. Chiusano, che, dopo Gandhi, la non-violenza «è tutt'altro che un sogno di bambini inesperti, ma può rivelarsi come l'unico modo di ottenere ciò che con la violenza non si otterrebbe mai»? La violenza è solo da rifiutare, e è tutta da buttar via quella lotta per il diritto contestativo, dal tirannicidio dell'età classica e dell'età medioevale, al diritto di resistenza, espresso dal disagio e dal tormento di fronte agli Stati assolutistici dell'età moderna, fino a quel diritto di rivoluzione, con cui si travaglia l'attuale società civile in vista di una sua dignità non solo economica?
 
E, infine, un fare di Dio, cui accedette problematicamente anche Kant, non ha proprio nessun senso, come darebbe ad intendere la decostruzione antropologica alla quale metterebbe capo l'ascesi cristiana quando viene praticata dentro i contesti del monachesimo ecclesiale? Così, infatti, mi pare di dover individuare il senso di Padre Sergio, che arriva ad annichilirsi inanemente anche nel nome, espressivo della radice personale, mentre è reso valido il suo trovar Dio nel senso che gli viene indicato da quell'altro personaggio plebeo, esso pure portatore messianico, Pasenka, che trova il suo Dio vero nel farsi tutto per la gente, a cominciare dai falliti di casa sua, e come lo trova, alla fine, lo stesso Sjerghji, deportato in Siberia, lavorando nell'orto del padrone, e realizzando in questo modo un tipico modulo illuministico, che va dal Candide di Voltaire ai Sogni di un visionario di Kant, che porta nel finale una parafrasi delle parole di Voltaire: «Bisogna aver cura della nostra felicità, andare nel giardino e lavorarvi». E se un fare di Dio non avesse alcun senso, ha ancora senso parlare di cristianesimo?
 
Siamo, per un verso, terribilmente affascinati dal cristianesimo ribelle e radicale di Tolstoj, ma, per altro verso, siamo altrettanto in. soddisfatti per la perdita della dimensione dialettica, paradossale, creativa della fede, la conquista più grande della teologia a partire dagli anni venti, dopo gli sfinimenti liberali, che chiudono in passivo la grande stagione del cristianesimo borghese. O forse è questa la condizione del credente, di doversi affidare a ciò che non offre oggettivamente affidamento? Allora, il paradosso di Tolstoj è un compiuto segno del paradosso di ogni fede.
 
Allora, accanto all'attualità del suo radicalismo cristiano, che chiede una resa di conti al lassismo mondanamente concordistico delle Chiese, che sembra risalire alla vittoria agostiniana sulle istanze donatistiche, è da mettere in conto anche questo ulteriore aspetto positivo, pur tra tante lacune e negazioni: quello di rilanciare la cruciale questione di come continuare a credere, di come dare senso e significato a termini e a contesti cristiani. Allo stesso modo che nell'attuale rumoreggiare, anche violento, delle forme autonome e delle loro istanze filosofiche, anche qui risulta, in primo piano, la questione originaria del senso, di come ritrovare giovani legami con le parole cristiane, che sembrano ubiquitarie in misura direttamente proporzionale alla loro offerta semplice, evangelica.
 
Fatta dunque la tara a caduchi cascami del retaggio illuministico, a imprecise precomprensioni di natura positivistica, schopenhaueriana, e romantica; fatta la tara a valori storiografici ormai fuori corso della scuola razionalistica nella lettura dei Vangeli; rispettato il reale dramma del Cristo che ha tutta la figura del dolente rabbi umano e storico pur nel balenare problematico, tra tanta terrestrità, di altra luce, che solo la discontinuità della fede può cogliere come nella raffigurazione di Kramskoj, io non dubito a mettere sul conto attivo di Tolstoj almeno due prorompenti istanze, che mi hanno torturato l'anima, con esaltazioni e smarrimenti, durante questi ormai lunghi mesi di lettura: la proposta radicale, povera e non-violenta, del vangelo, «ridotto» ad amore e a cura quotidiana degli uomini, soprattutto di quelli fatti preda del possesso e del potere; e poi la volontà insonne di chiarire, discutere, delimitare, esaltare i sensi della grande ipotesi cristiana, che ha avuto un capitolo analogo, anche se diversamente motivato, nel fenomeno della demitizzazione.
 
La lettura di Tolstoj avrebbe dunque un'attualità sorprendente con i due capitoli più ardenti della teologia del nostro tempo: la teologia politica, soprattutto nella versione sudamericana e nel suo fronte di lotta accanto alle popolazioni più povere; e la teologia del recupero del senso evangelico, non solo come contenuto ma anche come giustificazione critica di fronte alla scienza e di fronte alla vita, «Cristo e il mondo diventato adulto», come diceva Dietrich Bonhoeffer.
 
Peccato che Tolstoj non sia passato attraverso una rivoluzione analoga a quella della teologia dialettica, del Vaticano secondo, della proposta giovannea, ossia attraverso il recupero della «infinita differenza qualitativa», attraverso quella lotta ermeneuticamente insonne per riottenere «Dio come Dio» e non «un pezzo di mondo prolungato». I contesti teologici che gli stavano d'intorno non erano certo i più adatti per questa presa di senso, né gli poteva venire molto dal pur tanto amato mondo della religiosità contadina e del fiero modo di pregare di Chadzi-Murat. Anche per questo ha continuato a soffrire dentro di sé fede e incredulità; a vivere la tensione lucidamente espressa da Sklovskij: «si attenne a lungo all'ortodossia, come un uomo precipitato in un burrone si regge con le mani insanguinate a rami spinosi», ma poi «disserrò le mani avendo perso ogni speranza negli antichi appoggi»; o come ha scritto lui stesso ad Aleksandra Andrejevna Tolstaja, a far convivere in sé fede e miscredenza come un cane e un gatto nella credenza.
Questo alto travaglio è un ulteriore segno della sua vitalità non ancora esaurita.
 
(Da I. Mancini, Il Cristo di Tolstoj, in “La nuova rivista europea”, 7-8 [1978], pp. 58-61)
 
Italo Mancini
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