A questo punto mi sembra avvertire in te, amico, una domanda, accompagnata da un sorriso leggermente triste: "E allora: bisogna andare tutti nel deserto? Quale valore ha l'azione, l'impegno tra gli uomini, l'immergersi come lievito in questa città terrena? Com'è possibile ciò? Il deserto è lontano; mai potrò...".
A questo punto mi sembra avvertire in te, amico, una domanda, accompagnata da un sorriso leggermente triste: "E allora: bisogna andare tutti nel deserto? Quale valore ha l'azione, l'impegno tra gli uomini, l'immergersi come lievito in questa città terrena? Com'è possibile ciò? Il deserto è lontano; mai potrò...". Sapevo che tu pensavi a ciò; ed è assolutamente necessario spiegarci con tutta chiarezza; perché ne va di mezzo addirittura uno scandalo per la tua anima, di cui posso involontariamente essere la causa. Charles de Foucauld un giorno ebbe a dire: "Se la vita contemplativa fosse solo possibile dietro le mura di un convento o nel silenzio del deserto, dovremmo, per essere giusti, dare un piccolo convento ad ogni madre di famiglia e il lusso di un po' di deserto ad un povero manovale che è obbligato a vivere nel chiasso di una città per guadagnarsi duramente il pane". Non è così? Fu la visione stessa della realtà in cui vive parte dell'umanità povera a determinare in lui la crisi centrale della sua vita, quella crisi che lo doveva portare così lontano dalla sua prima concezione di vita religiosa. Charles de Foucauld, come sapete, era trappista e aveva scelto la trappa più povera che esistesse, quella di Akbes in Siria. Un giorno il suo Superiore lo mandò a vegliare un morto, vicino al convento. Era un arabo cristiano deceduto in una povera casa. Quando fratel Carlo si trovò nel tugurio del morto e vide attorno al cadavere la vera povertà fatta di figli affamati e di una vedova indifesa, debole e senza alcuna sicurezza sul pane del giorno dopo, entrò in quella crisi spirituale che lo avrebbe fatto uscire dalla Trappa, cercando un quadro di vita religiosa così diverso dal primo. "Noi che abbiamo scelto l'imitazione di Gesù e di Gesù crocifisso, siamo ben lontani dalle prove, dalle pene, dall'insicurezza e dalla povertà a cui sono sottoposte queste popolazioni. "Non voglio più un convento troppo stabile; voglio un convento piccolo come la casetta di un povero operaio che non è sicuro se domani troverà lavoro e pane e che partecipa con tutto il suo essere alla sofferenza del mondo". "Oh, Gesù, un convento come la tua casa di Nazaret per annientarmi, scomparire come hai fatto Tu quando sei venuto fra noi" (Charles de Foucauld, Écrits spirituels). E uscito dalla Trappa, costruirà la sua prima fraternità a Beni Abbes nel Sahara e poi a Tamanrasset, dove morirà trucidato dai Tuareg. La "fraternità" doveva somigliare alla casa di Nazaret, quindi ad una delle molte case che tu incontri lungo le strade del mondo. Ma allora aveva rinunciato alla contemplazione? allora aveva affievolito il suo ardente spirito di preghiera? No; aveva fatto un passo avanti: aveva accettato di vivere la vita contemplativa lungo le strade, in un quadro di vita somigliante a quello di tutti gli uomini. Ciò è ben più duro! E Dio voglia che l'umanità faccia questo passo. Per questo Charles de Foucauld è all'alba di un periodo nuovo, d'un periodo in cui molti si sforzeranno di fare la sintesi tra contemplazione e azione, attuando in una concretezza vitale il primo comandamento del Signore: "Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come te stesso". "Contemplazione sulle strade": ecco l'impegno di domani per i piccoli fratelli, per tutti i poveri.
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E incominciamo ad analizzare questo elemento "deserto", che dev'essere presente, specie oggi, nell'attuazione di un sì impegnativo programma. Quando si parla di deserto all'anima, quando si dice che il deserto deve essere presente nella tua vita, non devi intendere solo la possibilità di andare nel Sahara o nel deserto di Giudea, o dell'Alta Valle del Nilo. È certo che non tutti possono procurarsi questo lusso o attuare praticamente questo distacco dal vivere comune. Il Signore mi ha condotto nel vero deserto per la durezza della mia pelle. Per me, fu necessario così; e tanta sabbia non mi è bastata a raschiare la sporcizia della mia anima, come capitò alla marmitta di Ezechiele. Ma non per tutti c'è la stessa via. E se tu non potrai andare nel deserto, devi però "fare il deserto"nella tua vita. Fare un po' di deserto, lasciare di tanto in tanto gli uomini, cercare la solitudine per rifare nel silenzio e nella preghiera prolungata il tessuto della tua anima, questo è indispensabile, e questo è il significato del "deserto" nella tua vita spirituale. Un'ora al giorno, un giorno al mese, otto giorni all'anno, per un periodo più lungo, se necessario, devi abbandonare tutto e tutti e ritirarti solo con Dio. Se non cerchi questo, se non ami questo, non illuderti; non arriverai alla preghiera contemplativa; perché essere colpevole di non volersi - potendo - isolare per gustare l'intimità con Dio, è un segno che manca l'elemento primo del rapporto con l'Onnipotente: l'amore. E senza amore non c'è rivelazione possibile. Ma il deserto non è il luogo definitivo; è una tappa. Perché, come ti dissi, la nostra vocazione è la contemplazione sulle strade. Lungo la via dobbiamo tornare dopo la pausa del deserto. A me, questo, costa assai. È così forte il desiderio di continuare a vivere qui per sempre, nel Sahara, che sento di già la sofferenza in previsione di un ordine dei Superiori, che certamente verrà: "Fratel Carlo, parti per Marsiglia, parti per il Marocco, parti per il Venezuela, parti per Detroit...". Devi tornare tra gli uomini, devi mescolarti a loro, devi vivere la tua intimità con Dio nel chiasso della loro città. Sarà più difficile; ma devi farlo. E non ti mancherà, per questo, la Grazia di Dio. Ogni mattina prenderai la strada, dopo la S. Messa e la Meditazione, e andrai a lavorare in una bottega, in un cantiere; e quando tornerai la sera, stanco, come tutti gli uomini poveri costretti a guadagnarsi il pane, entrerai nella Cappellina della fraternità e resterai lungamente in adorazione; portando con te, alla preghiera, tutto quel mondo di sofferenza, di oscurità e sovente di peccato in mezzo al quale hai vissuto per otto ore, pagando la tua razione di pena e di fatica quotidiana. Contemplazione sulle strade: è una bella frase, ma costa assai. Certo, sarebbe più facile e più dolce restare qui, nel deserto; ma sembra che Dio non voglia. La voce stessa della Chiesa si fa sempre più sentire per indicare ai cristiani la realtà del Corpo Mistico e l'apostolato in esso, per richiamare alla carità vissuta, per invitare tutti ad un'azione, che partendo dalla contemplazione, ritorna ad essa sul versante della testimonianza e della presenza tra gli uomini. I muri dei conventi si fan sempre più sottili e più bassi; si moltiplicano coloro che vivono la verginità nel mondo; i laici stessi prendono coscienza della loro missione e cercano la loro spiritualità. È davvero l'alba di un mondo nuovo, al quale non parrebbe retorico dare come consegna "la contemplazione sulle strade" e gli esempi per attuarla.
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Ma non vorrei chiudere questa lettera senza dire due parole su un altro elemento basilare per la vita contemplativa, soprattutto se vissuta nel mondo: la povertà! È troppo importante, specie oggi. Per povertà non s'intende avere o non aver denari, avere o non aver pidocchi addosso. La povertà non è cosa materiale: è una beatitudine: "Beati i poveri in spirito". È un modo di essere, di pensare, di amare; è un dono dello Spirito. Povertà è distacco, è libertà, è soprattutto verità. Entrate nelle case borghesi, anche se cristiane, e vi convincerete della mancanza di questa beatitudine della povertà. I mobili, gli oggetti, l'insieme è spaventosamente eguale in tutte le case; esso è determinato dalla moda, dal lusso; non dal bisogno, dalla verità. C'era un vecchio tavolo robusto, comodo, ricco di ricordi. No; bisogna metterlo in cantina e sostituirlo inutilmente, con un altro che ha solo delle pretensioni, che sarà vuoto di senso, e che avrà solo il merito di far dire all'amico: "È di moda". Questa mancanza di libertà, meglio, questa schiavitù della moda è uno dei diavoli che tiene avvinghiato solidamente un gran numero di cristiani. Al suo altare, quanti denari si sacrificano! E senza tener conto che si potrebbe fare tanto bene. L'essere povero in spirito significa innanzitutto essere liberi da ciò che si chiama moda, significa libertà. Non compero una coperta perché è di moda; compero una coperta perché ne ho bisogno. Senza coperta, il mio bambino trema nel letto. Il pane, la coperta, il tavolo, il fuoco sono cose necessarie in sé. Il servirsi di esse è realizzare il piano di Dio. "Tutto il resto vien dal maligno", si potrebbe dire parafrasando un'espressione di Gesù a proposito della verità. E questo "resto" è la moda, la consuetudine, il lusso, l'impinguamento, la ricchezza, la schiavitù, il mondo. Non ciò che è vero si cerca, ma ciò che piace agli altri. C'è bisogno di questa maschera: senza di essa non si è più capaci di vivere. Ma le cose si fanno gravi quando entrano di mezzo gli "stili" e le spese diventano astronomiche. "Questo è un Luigi XIV..., questo è Barocco puro..., questo ecc., ecc.". E diventano più gravi ancora quando "gli stili" entrano nelle case degli uomini di Chiesa chiamati per vocazione ad evangelizzare i poveri. C'è sì una giustificante, ed è che in questi ultimi secoli, dalla Rinascenza al Barocco, il trionfalismo della Chiesa e il bisogno sentito dalle folle d'onorare degnamente Dio e le cose di Dio si sono espressi in un lusso e in una pompa davvero straordinarie. E i poveri non ne avevano scandalo, anzi piaceva loro tutto quel luccichio e quella sontuosità. Ricordo mia madre, che pur era povera, parlare con orgoglio di cristiana e con soddisfazione della bellezza della casa del Vescovo e della lunghezza delle macchine dei prelati che parcheggiavano sotto la finestra. Ma le cose son cambiate e non stanno più così e se sapesse o meglio sentisse i moccoli che splodono dietro la sua elegante macchina americana quel Monsignore, mio vecchio amico, farebbe in fretta a raccorciarla o combiarla con una utilitaria di tinta bigio-sporco o, meglio ancora, andrebbe in bicicletta. Si parla della "Chiesa dei poveri"e non credo sia una frase retorica. Ma bisogna intendersi sul significato delle parole. Quando si parla della povertà della Chiesa non si deve identificarla con la "beatitudine della povertà". Questa, la beatitudine, è una virtù interiore e non posso e non debbo giudicarla nel mio fratello. Anche colui che è ricco di beni, anche il Pontefice coperto di un piviale d'oro possono e debbono avere la beatitudine della povertà: nel cuore, possono e debbono essere "poveri in spirito". Nessuno può giudicarli su quella frontiera, specie nella Chiesa. Ma quando si parla della povertà nella Chiesa si intende la povertà sociale, il volto povero di essa, l'attenzione ai poveri, l'aiuto ai poveri, l'evangelizzazione dei poveri. E la cosa è ben diversa. Quando si parla di povertà nella Chiesa si intende il rapporto con gli altri ed è questo che scandalizza il povero, come scandalizzava S. Paolo il modo di fare dei cristiani di Corinto. "Radunandovi dunque assieme non è che mangiate la Cena del Signore, poiché ciascuno s'affretta a prendere e consumare la propria cena e c'è chi patisce la fame e chi invece s'ubriaca. O non avete la vostra casa per mangiare e bere? Avete forse in dispregio la Chiesa di Dio, e volete fare arrossire quelli che non possiedono nulla?" (1Cor 11, 20). E non facciamo noi forse arrossire il povero quando gli passiamo vicino con la nostra potenza e ricchezza mentre lui non ha i soldi per pagare l'affitto? Come potremo evangelizzarlo stando dall'alto della nostra sicurezza economica mentre lui non sa se domani avrà lavoro e pane?
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Ma la povertà come beatitudine non è solo verità, libertà e giustizia; è e resta amore, e i suoi confini divengono infiniti come i confini delle perfezioni divine. Povertà è amore verso Gesù povero, cioè verso l'accettazione volontaria d'un limite. Gesù poteva essere ricco; non aveva bisogno di un limite ai sui desideri. No; volle essere povero per partecipare alla limitazione universale dei poveri, per sopportare la mancanza di qualcosa, per soffrire nella sua carne la dura realtà che pesa sull'uomo che cerca il suo pane, e nel suo spirito l'instabilità perenne di chi non possiede. Questa povertà autentica, sopportata per amore, è la vera beatitudine di cui parla il Vangelo. Troppo facile parlare di povertà spirituale, riempirsi la bocca di parole pie e non mancare di nulla e avere casa sicura, disponsa ben fornita e conti in banca. No; non facciamoci illusioni e non cambiamo i termini delle cose più preziose dette da Gesù. Povertà è povertà, e resta povertà; e non è sufficiente fare il voto di povertà per essere poveri in spirito. C'è uno scandalo oggi nelle anime dei poveri; e per toglierlo sarebbe meglio parlare meno del solito tema sulla castità e mettere maggiormente l'accento su questa beatitudine che minaccia davvero di essere spazzata via dalla realtà del cosiddetto "vivere da cristiani". Se è vero, com'è vero, che la perfezione della legge sta nella carità, tale perfezione deve investire in pieno i miei averi, le mie ricchezze; altrimenti non conoscerò la beatitudine. Se amo, se veramente amo, come potrò sopportare che un terzo dell'umanità sia minacciata di morire di fame, mentre io conservo tutta la mia sicurezza e la mia stabilità economica? Facendo così, sarò un buon cristiano, ma non sarò certamente un santo; ed oggi c'è inflazione di buoni cristiani, mentre il mondo ha bisogno di santi. Saper accettare l'instabilità, mettersi nelle condizioni di tanto in tanto di dover dire il "dacci oggi il nostro pane quotidiano" con un po' di ansia, perché la dispensa è vuota; avere il coraggio, per amore di Dio e del prossimo, di dare senza misura, e, soprattutto, mantenere aperta sul povero cielo dell'anima nostra la grande finestra della fede viva nella Provvidenza di un Dio Onnipotente: questo occorre.
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So che ciò che ho detto sulla povertà è grave e so che anche nel mondo non ho saputo attuarla. Chi ha cambiato il vecchio tavolo di casa sua per un altro insignificante sono io; chi ha vissuto per anni dietro la maschera del "piacere agli altri" sono io; chi ha speso denari e non solo suoi per le cose "non vere" sono io. Eppure, nonostante questo, non posso tacere; e ai vecchi amici debbo dirlo: badate alla tentazione delle ricchezze. È molto più grave di quanto appaia oggi ai cristiani benpensanti e semina strage nelle anime, proprio perché si sottovaluta il pericolo o perché "a fin di bene" tutto diventa lecito. La ricchezza è un veleno lento, che colpisce quasi insensibilmente, paralizzando l'anima nel momento esatto della sua maturità. Cono le spine che crescono col grano e che lo soffocano proprio quando comincia a mettere la spiga. Quanti, uomini o donne, anime religiose che pur hanno superato il duro scoglio dell'impurità, si lasciano irretire nella maturità della vita da questo demone vestito bene e di gusti borghesi. Ora che la solitudine e la preghiera mi hanno aiutato a vedere più chiaro, comprendo perché contemplazione e povertà sono inseparabili. Non si può giungere alla intimità con Gesù a Betlemme, con Gesù esule, con Gesù operaio a Nazaret, con Gesù apostolo che non ha ove posare il capo, con Gesù crocifisso, senza aver operato in noi quel distacco dalle cose, da Lui così solennemente proclamato e vissuto. Non si giungerà di colpo a questa dolcissima beatitudine della povertà. La vita non ci basterà a realizzarla in pieno; ma è necessario pensarci, riflettere, pregare. Gesù, il Dio dell'impossibile, ci aiuterà; compirà, se necessario, il miracolo di far transitare il cammello della parabola attraverso la cruna stretta e arrugginita della nostra povera anima malata.
Carlo Carretto
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