Ed è li che andrò ad intervistare due ragazzi, Sokol e Jovan, simbolo di questo decennale, lento, tentativo di riconciliazione tra i serbi che ora vivono isolati nelle loro enclave e gli albanesi che invece risiedono in città.
del 30 novembre 2009
 
 
La sera del 24 marzo 1999 la Nato bombarda la Serbia. L’obiettivo è quello di liberare il Kosovo dalle truppe di Milosevic e fermare così gli atroci massacri perpetrati ai danni della popolazione civile. Massacri a cui non si sottraggono gli stessi albanesi per mano dei famigerati guerriglieri dell’Uçk. Una guerra civile a sfondo etnico a tutti gli effetti.
 
 
 
 
Centinaia di migliaia saranno i profughi costretti a lasciare le loro case, di questi la maggior parte albanesi. Il 12 giugno, in seguito alla capitolazione del leader serbo, in Kosovo entrano le prime unità militari della Kfor, la forza internazionale guidata dalla Nato e responsabile del mantenimento della sicurezza in loco. Le truppe italiane sono in prima fila insieme alle forze britanniche, americane, francesi e tedesche.
 
Con la Kfor rientrano i primi profughi albanesi. Ma a questo punto si verifica un altro esodo, quello dei serbi. Della fine della guerra a oggi saranno più di ducentomila a lasciare il Kosovo. Sono diretto a Pec/Peja, è lì che da dieci anni ormai sono di stanza i militari italiani. Ed è li che andrò ad intervistare due ragazzi, Sokol e Jovan, simbolo di questo decennale, lento, tentativo di riconciliazione tra i serbi che ora vivono isolati nelle loro enclave e gli albanesi che invece risiedono in città. I due ragazzi collaborano da qualche anno fianco a fianco – con le Ong italiane Tavolo Trentino e Operazione Colomba – ad un progetto volto alla ricostruzione del dialogo tra le due comunità.
 
L’uno cristiano ortodosso, l’altro musulmano: lavorano insieme, gomito a gomito consumano gulash al ristorante e si scambiano amene battute e tutto questo fa un certo effetto. Ma nonostante il sembiante di pacifica coesistenza, i colloqui privati rivelano di colpo tutte le incolmabili distanze che li separano, al punto da dare due versioni interamente opposte di un evento accaduto proprio qui e solo cinque anni fa.
 
Mi riferisco all’assalto dei villaggi serbi nel marzo 2004 in ritorsione all’annegamento di tre ragazzi albanesi nel fiume Ibar. Abel, il ragazzo kosovaro che siede accanto a me qui sull’autobus partito ore fa dalla Serbia e diretto in Kosovo, non mi nasconde lo scopo del suo viaggio a Belgrado: ottenere un passaporto serbo. Sembrerebbe uno scherzo, lui kosovaro e di etnia albanese che richiede un passaporto serbo? Eppure non è affatto uno scherzo e Abel non è il solo. Avere un passaporto kosovaro è poco pratico se intendi espatriare in cerca di lavoro. Il Kosovo infatti 'vanta' un tasso di disoccupazione del 74 (!) per cento.
 
E un kosovaro, visto permettendo, può viaggiare in Europa e visitare il Colosseo, ma le colonne del Partenone o le Ramblas sono per lui già oltre il limes. Già, perché Grecia e Spagna, oltre che Romania, Slovacchia e Cipro, non hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. E con altrettanto stupore apprendo il seguito della sua storia. Racconta che a Belgrado è stato sorpreso dalla polizia per strada ed è stato sottoposto a un interrogatorio di quasi tre ore nel tentativo di fargli rivelare i nomi (le domande su suo padre sono state le più ostinate e incalzanti) di ex-affiliati con l’esercito dell’Uçk, l’esercito di liberazione kosovaro. All’epoca dei fatti, 1999, Abel era poco più di un adolescente. E ora capisco bene la sua rabbia.
 
 
 
Il serbo
«L’obiettivo? Tornare con Belgrado, anche se dovessimo attendere per secoli»
 
Jovan vive a Gorazdevac, l’enclave serba a pochi chilometri da Pec (o Peja). Ha il volto segnato da anni di prostrazione, qui tutti sembrano più vecchi di almeno dieci anni: «Nel 1998 avevo vent’anni ed ero nell’esercito della Jugoslavia…», mi dice. Domenico, un ragazzo emiliano che lavora da un anno e mezzo con le Ong mi fa da interprete.
 
«Prima della guerra – continua Jovan – non avevo mai avuto amici albanesi, non mi importava. Loro avevano la loro vita io la mia. Loro le loro scuole, noi le nostre. Ma al contrario di loro, i serbi rispettano Belgrado, che è sempre la nostra capitale. Io ho trentun anni, ho abitato in cinque nazioni diverse, cioè la Repubblica socialista federale di Jugoslavia, la Repubblica federale di Jugoslavia, l’Unione di Serbia e Montenegro, la Repubblica di Serbia, e ora la Repubblica del Kosovo; e non ho mai cambiato casa».
 
Ora collabori con due Ong italiane per migliorare il dialogo tra la tua comunità serba e quella albanese di Pec, ma dieci anni fa avevi un fucile in mano e difendevi la tua terra dagli stessi con cui oggi cerchi un dialogo…
 
«Dieci anni fa se mi avessero detto che sarei stato a pranzo con un albanese, forse gli avrei sparato. Oggi è tutto diverso».
 
Cos’è cambiato?
 
«Quando hanno ammazzato un mio amico, che abitava a pochi passi da casa mia, mi son detto, questa cosa è assurda, così non può continuare. Cosi, anche grazie alle Ong italiane, abbiamo cominciato a ricucire un dialogo tra le parti. Ma non abbiamo mai pensato a un progetto multietnico, perché rischiano di essere solo belle parole. Un’utopia irrealizzabile».
 
Hai un passaporto serbo?
 
«Certo, come molti albanesi. Ora mi dicono che questa terra si chiama Repubblica del Kosovo. Posso accettarlo? Che intanto ritornino i duecentomila serbi che abitavano qui prima della guerra».
 
Cos’è che vorresti per il Kosovo?
 
«C’è una risoluzione Onu firmata da 62 Paesi che dice che il Kosovo fa parte integrante della Serbia, e ora invece 64 Stati gli riconoscono l’indipendenza. Sono in perfetta contraddizione».
 
Ma tu vedi una soluzione realistica, un compromesso come dici tu, un alternativa a questo stato di cose?
 
«Certo, autonomia al Kosovo, ma all’interno della Repubblica Serba».
 
Ma il Kosovo ha già ormai una sua indipendenza, e soprattutto questa è riconosciuta da un gran numero di nazioni, non credi che a questo punto sia difficile tornare indietro?
 
«Allora ti dico che, se abbiamo aspettato cinque secoli di dominazione turca per liberare il Kosovo, allora aspetteremo altri cinque secoli per liberarlo dagli albanesi».
 
 
 
L’albanese
«Per decenni hanno cercato di annullare la nostra identità e di imporci la loro»
 
Anche Sokol, come Jovan, ha un innato istinto al sorriso. Parla bene l’italiano.
 
Cosa facevi dieci anni fa, prima della guerra?
 
«Nel ’99 avevo diciassette anni. Studiavo al ginnasio, ma in una casa privata. Non c’erano scuole ufficiali in albanese, erano vietate. Quando è scoppiata la guerra ero già al terzo anno ma siamo dovuti fuggire. Prima siamo andati in Montenegro, con tutta la mia famiglia, a piedi e zaino in spalla...
 
Dopo qualche mese passato nei campi profughi in Albania siamo rientrati, ma i problemi erano tanti: uno Stato senza polizia, tante mine in giro e tante persone mutilate. Una situazione disperata. A quel tempo ero l’unico della mia famiglia a lavorare perché conoscevo un po’ l’inglese, ed è proprio con l’inglese che ho cominciato a parlare con gli italiani e col tempo ho imparato anche la vostra lingua».
 
Da quanto fai la scorta ai serbi?
 
«Da qualche anno. Per me la libertà di movimento è sempre stata una cosa importante, ed è in fondo una cosa semplice. Per tre anni ho scortato queste persone. Li aiutavo... Alcuni medici si rifiutavano di operarli, qualche negozio a loro non vendeva. Dicevano: 'M’avete ammazzato un cugino, un fratello, esci fuori da qui'. Ma chi ha sofferto più qui in Kosovo sono gli albanesi. Ventitremila persone ammazzate, i serbi quanti? Otto, diecimila. Loro soffrono dal 1999, noi da molto prima.
 
Dal 1980, da quando è morto Tito. E poi, dal 1996 è esistito solo il cirillico, ma quasi nessuno lo capiva. Guarda [tira fuori un documento d’identità in cirillico, ndr]: se non lo portavo con me, mi picchiavano. È il documento che dice chi sono io, ed io neppure so che c’è scritto. Come la chiami tu questa? Questa è assimilazione forzata».
 
Parli mai con i soldati italiani?
 
«Per me gli italiani sono degli eroi, ma non credo sia più tanto necessaria la loro presenza».
 
Ma molti serbi hanno ancora paura della loro vita, per questo non voglio che se ne vadano i militari…
 
«Non c’è pericolo. La guerra è finita».
 
Anche nel 2004 era finita. Eppure sai che successe allora: case e chiese dei villaggi serbi sono state distrutte, duemila persone che vivevano a Belo Polje sono dovute fuggire...
 
«Ma quel villaggio era vuoto già prima: c’erano al massimo quattro o cinque famiglie già allora, a Belo Polje. L’unica enclave serba popolata era Gorazdevac. Già prima del 2004 non ci viveva nessuno lì».
 
La guardi la tv italiana? Hai visto il reportage di Riccardo Iacona sul Kosovo nove anni dopo?
 
«Si, me l’han detto, e sono andato a scaricarmelo da internet. Una buffonata. Se avesse avuto una guida albanese avremmo visto lo stesso reportage ma dalla parte opposta, altrettanti uccisioni, violenze, distruzioni. Qui tutti hanno sofferto. Nel doppiaggio dei serbi la voce era sempre molto calda, suadente e mite, tipica della vittima e quando le poche volte facevano parlare un albanese la voce e l’espresisone del doppiatore erano sempre arroganti e aggressive. Così si sapeva già chi era il colpevole. Facile no?».
 
 
Cristian Martini
Versione app: 3.25.3 (26fb019)