In Spagna, come in Italia, l'introduzione della legge sull'aborto inizialmente rispondeva a situazioni altamente drammatiche, come appunto la violenza sessuale da un lato e il cosiddetto aborto terapeutico dall'altro.
del 14 luglio 2010
 
                La Spagna ci sorprende ogni giorno per le posizioni che assume: sempre in modo molto chiaro e con grande determinazione. Non è un popolo di chiaro-scuri né tanto meno un popolo in cerca di mediazioni. La sua prerogativa è quella di non lasciare spazio ad ambiguità di sorta: una volta presa una decisione non sono ammessi né distinguo né tentennamenti.
 
                Il suo approccio ai problemi non prevede dubbi. Il suo approccio alle sfide non ammette sconfitte. E non stiamo parlando dei mondiali di calcio e della finale che disputerà domenica contro l’Olanda. Per questo forse basterà Villa, il miglior giocatore in campo di questi Mondiali.
                Stiamo parlando delle sue posizioni in merito a quelle che in Italia siamo abituati a chiamare questioni eticamente sensibili o meglio ancora valori non negoziabili. Archiviato ormai definitivamente l’aggettivo con cui da secoli era qualificata: la cattolicissima Spagna, resta solo un modo per definire le sue posizioni attuali.
Non la laicissima Spagna, qualificativo che compete alla Francia per antiva tradizione culturale, ma la laicista Spagna, per quel suo modo arrogante e supponente di accantonare quella ricchezza di valori e di convinzioni che ne hanno fatto una delle Nazioni più impegnate nella evangelizzazione di Paesi di tutta l’America Latina.
                Finora in Spagna le donne potevano ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza solo in caso di stupro (fino alla 12esima settimana), di malformazione del feto (22esima) o per grave rischio per la salute della madre (senza limite temporale), motivo al quale si appellava, nel 2008, la quasi totalità delle donne (96,69%).
                In Spagna, come in Italia, l’introduzione della legge sull’aborto inizialmente rispondeva a situazioni altamente drammatiche, come appunto la violenza sessuale da un lato e il cosiddetto aborto terapeutico dall’altro. Anche se vale la pena ricordare che il termine aborto terapeutico è un ossimoro, perché non cura proprio nessuno e si limita a procurare la morte di un soggetto che alla nascita potrebbe presentare delle malformazioni, più o meno gravi.
                È tristemente noto in Italia il caso di Rossano Calabro, dove più che un feto dobbiamo parlare di un bambino, perché perfettamente in grado di avere una vita autonoma, e lasciato morire in sala parto, senza alcun tipo di assistenza, perché nato con una malformazione oggi perfettamente curabile come il labbro leporino. Ma in Spagna, come in Italia, la giustificazione addotta con maggior frequenza da parte delle donne che ricorrono all’aborto resta quella della salute della madre.
                Non tanto la salute fisica quanto piuttosto la salute psichica, ossia quel malessere, a volte realmente molto pesante, che si genera davanti a responsabilità che per le ragioni più varie non ci si sente di affrontare. In Spagna il 96,69% delle donne finora adducevano questa giustificazione, perché in qualche modo dovevano spiegare il perché del loro rifiuto ad accogliere la nuova vita. Oggi nessuno porrà più questa domanda alle donne spagnole; nessuno le inviterà a riflettere, a cercare alternative, a provare a pensare se è possibile garantire anche i diritti del bambino e non solo quelli della madre. Di fatto oggi la donna immaginando di essere più libera, è in realtà più sola anche davanti alla sua coscienza.
                Tutti sappiamo come un aborto, qualsiasi siano le cause che hanno indotto una donna ad abortire, pesa sulla sua coscienza con un ricordo che è pressoché impossibile cancellare. Quel bambino non-nato è presente nella memoria, alimenta spesso fantasie tristi e genera una sensazione di colpa che niente e nessuno potrà cancellare. Quel dire e quel dirsi il perché di un gesto aveva comunque il sapore di un tentativo di riconciliarsi con se stesse, di sentirsi dire da un’altra voce che c’erano ragioni ragionevoli per compiere un gesto estremo, come in definitiva è e resta un aborto. Un modo come un altro per essere e per sentirsi meno sole.
                Oggi anche questo viene meno e qualcuno può perfino credere che non dovendosi giustificare di fronte a nessuno, la donna possa non doversi giustificare neppure davanti a se stessa e davanti a suo figlio, Perché qualsiasi cosa si dica e si faccia a livello di normativa, ogni donna sa che ciò che aspetta è un bambino, è suo figlio. Il linguaggio popolare, rimasto finora fortunatamente identico, dice semplicemente: aspetto un bambino, da due, tre, quattro, sette settimane. È vero non dovrà più spiegare al medico, all’infermiera, le ragioni della sua decisione, forse non dovrà più sentire un consiglio che potrebbe rimettere in discussione una decisione presa, ma proprio questo silenzio e questa possibile crescente indifferenza, renderà ancora meno umana questa situazione.
                La recentissima riforma dell’aborto entrata in vigore il 5 luglio di quest’anno accentua ulteriormente quell’approccio culturale che trasforma un delitto in un diritto, come ha denunciato la Conferenza episcopale spagnola. La nuova legge sull’interruzione volontaria di gravidanza in Spagna prevede infatti che le donne di età superiore ai 16 anni possano abortire entro le prime 14 settimane di gestazione senza dover fornire alcuna spiegazione.
                È soprattutto nei confronti delle adolescenti che la legge accelera pericolosamente il passo e perde quella naturale cautela, di tipo affettivo oltre che educativo, tipica della cultura occidentale. Le minorenni possono oggi tenere i loro genitori completamente all’oscuro di quanto intendono fare, se dimostrano che la loro decisione può provocare un grave conflitto familiare. Un conflitto che è probabilmente tutto nella loro mente e nella loro fantasia, e in un certo senso rappresenta la materializzazione delle loro paure e delle loro angosce.
                Una ragazza con meno di 18 anni infatti, dopo un breve colloquio con uno psicologo, può interrompere volontariamente la sua gravidanza, assumendosene la piena ed esclusiva responsabilità. Non c’è dubbio infatti che sono ampiamente passati i gravi conflitti familiari di una volta, quelli per cui un genitore avrebbe potuto cacciare di casa una figlia, o punirla con la violenza fisica e morale. Difficile immaginare che la conflittualità tra madre e figlia, o tra padre e figlia nella nostra cultura occidentale raggiunga questa linea di guardia: i genitori possono dispiacersi davanti all’indubbio cambiamento di vita che l’arrivo di un bambino produce in una famiglia, tanto più se la formazione di una nuova famiglia è ancora lontana e perfino improbabile.
                Il clima di grande libertà, spinto fino a un permissivismo a 360 gradi, rende possibile che nella mente dei genitori sussista il rischio che una figlia possa restare incinta. La gravidanza delle adolescenti in alcuni Paesi, a cominciare dall’Inghilterra, sta diventando un vero e proprio problema sociale. Ma si illude chi crede che lo si possa risolvere facilitando l’accesso all’aborto. È uno dei segni più drammatici dell’emergenza educativa che attraversa la nostra società e che richiede iniziative molto più ampie e articolate, con un coinvolgimento della famiglia assai maggiore e non una rimozione della famiglia stessa.
                L’aborto, depenalizzato in Spagna nel 1985 sulla base di alcuni presupposti, si trasforma esattamente 25 anni dopo in un diritto, per cui la donna non deve dare nessuna spiegazione a nessuno perché nessuno può mettere in discussione il suo diritto individuale a decidere come meglio crede della sua vita. Peccato solo che non ci sia nessuno a tutelare la vita del bambino che è in lei e a nessuno sia permesso condividere con lei ansie e timori, speranze e programmi.
                Davanti a questo nuovo “diritto”, per cui non c’è stata nessuna formazione e spesso neppure nessuna informazione specifica, una ragazza giovanissima può impegnare il suo futuro e quello del suo bambino, senza neppure confrontarsi con chi le ha dato la vita e si è preso cura di lei per tanti anni… È un doppio vulnus inferto sia al valore della vita che al valore della famiglia, a conferma -se ce ne fosse bisogno - di come questi due valori marcino sempre in modo strettamente collegato.
                Sulle nuove norme, tuttavia pende ancora una sentenza della Corte costituzionale, alla quale si sono rivolti sia il Partito popolare, sia il governo della Navarra. Anche le comunità di Murcia e di Madrid, rette dal Partito popolare, potrebbero decidere di non applicare le nuove norme, almeno finché non si saranno pronunciati i giudici costituzionali. Ancora una volta su questi temi la scelta politica ricalca un tipo di approccio che caratterizza la sinistra, in contrasto con quanto propone non solo una visione cristiana della società, ma anche il semplice diritto naturale.
                È singolare come negli ultimi decenni ormai la cultura della sinistra si stia appiattendo sulle posizioni radicali di un individualismo che mentre fa della libertà della donna un principio assoluto e inviolabile, ignora totalmente le istanze del più fragile e del più debole. E questo in flagrante contraddizione con ciò che la scienza e la tecnica ci ricordano giorno per giorno, al punto che ci sono donne che rifiutano di fare un’eco-cardiografia, perché non vogliono né vedere né sentire il battito del loro cuore del loro figlio. Cercano in tutti i modi di porre distanza tra sé e il figlio, spesso senza riuscirci, o comunque dovendo ricorrere ad argomenti sempre più pesanti per giustificarsi nel fondo del loro cuore.
                A dimostrazione che la nuova legge presenta articoli per lo meno criticabili, la Suprema Corte spagnola mercoledì scorso ha riconosciuto l’ammissibilità di un ricorso presentato dal Partito popolare, il quale aveva chiesto la sospensione in via cautelativa di otto articoli della legge con la motivazione che violerebbero l’articolo 15 della Costituzione, precisamente quello sul diritto alla vita.
                A tal proposito il Governo ha dovuto presentare immediatamente la sua tesi difensiva, per consentire ai Giudici di decidere se procedere alla sospensione cautelare della riforma. Proteste. E nel giorno in cui il Governo presentava la sua linea difensiva è montata una grande protesta popolare davanti alla Corte costituzionale di Madrid. Sabato scorso infatti, molte centinaia di persone sono scese in piazza, rispondendo all’appello di varie associazioni e gruppi politici, per manifestare contro questo pretestuoso ampliamento della legge sull’aborto.
                Mentre restiamo in attesa della sentenza della Corte costituzionale spagnola, ci rendiamo conto di come anche noi in Italia non siamo del tutto immuni da rischi di questo tipo, proprio per il tipo di cultura circolante, che mentre inneggia al principio di autodeterminazione, non è in grado di difendere e tutelare con la stessa energia anche il valore della vita, soprattutto quando appare più debole e indifesa. Proprio per questo alla fine di maggio in Italia, in occasione di un ennesimo anniversario della approvazione della legge 194, una cinquantina di parlamentari di tutti gli schieramenti ha indirizzato una lettera ai Presidente delle Regioni, dicendo in buona sostanza:
                “Chiediamo ai Presidenti delle Regioni di assumere, in coerenza con gli obiettivi della legge 194/78, un forte impegno di tutela della vita nascente. Chiediamo di farlo nello spirito della legge e con gli strumenti previsti dalla stessa, superando la visione riduttiva che negli ultimi 30 anni ne ha garantito solo una parziale applicazione e ha dimenticato tutte quelle donne che -potendo- avrebbero voluto tenere il proprio figlio, ma si sono sentite sole e incapaci di fronteggiare difficoltà di tanti tipi diversi.
                Chiediamo a ogni Presidente di assumere questo impegno nell’anniversario della approvazione della legge stessa, il prossimo 22 maggio, attivandosi concretamente su questi tre obiettivi: potenziare gli attuali consultori o, dove fosse necessario, istituirne di nuovi presso i Centri di medicina materno-infantile e/o presso i distretti socio-sanitari; dotare gli stessi delle risorse necessarie per garantire i servizi di prevenzione e di sostegno a tutte le donne e alle loro famiglie, ascoltando con particolare attenzione quelle donne che, se adeguatamente aiutate, non vorrebbero abortire per aiutarle a risolvere i loro problemi, anche attraverso una sorta di assegno di maternità; facilitare il fatto che i consultori possano avvalersi della collaborazione delle Associazioni di volontariato che si impegnano a garantire un sostegno efficace a tutela della genitorialità”.
                Con i tempi che corrono non sembra paradossale dover difendere i vincoli che pone la stessa legge 194 e cercare di applicarne quelle parti finora rimaste nell’ombra mentre avrebbero dovuto diventare il punto qualificante per una esatta applicazione almeno dell’incipit della legge“lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.
                Finora ci hanno risposto solo cinque presidenti di Regione… Attenzione perché la Spagna è vicina…
Paola Binetti
Versione app: 3.25.0 (f932362)