Affettuosi, coinvolti, presenti, i padri di oggi vengono rappresentati ora come «mammi» senza identità, ora come più efficaci educatori, mentre c'è chi rimpiange il padre autoritario e castigatore.
del 18 marzo 2009
«Non so esprimere a parole cosa sia per me mio figlio. È una miriade di cose insieme. È il mio oltre, il mio irrazionale, la mia forza... è la parte migliore di me, stranamente staccata da me. Quando ritorno dal lavoro e lo abbraccio, m’immergo nel suo profumo e mi sento a casa. So perché sto vivendo». È faticoso estorcere a Giulio, 45 anni, libero professionista, queste dense frasi sul figlio Luca di sei anni. Non è abituato a parlare di sentimenti e lui stesso ascolta le sue parole con un misto di pudore e stupore, quasi come se le pensasse per la prima volta. Probabilmente ciò che prova è strano, diverso, lontano da quello che è stato suo padre per lui, eppure è al contempo così familiare. Non c’è dubbio, qualcosa è cambiato nell’universo dei padri, ma il padre che si sta affacciando alla modernità ha ancora i contorni incerti di chi sperimenta sul campo il suo ruolo senza più i riferimenti di un tempo.
 
Da qualche anno i media parlano di «nuovi padri», con il tono dei cambiamenti epocali: ora per annunciare la loro irrimediabile crisi, ora per denunciare la loro trasformazione in «mammi» d’ambigua identità, ora per segnalare la loro maggior presenza nella cura e nell’educazione dei figli. Immancabili le interviste al manager o al politico che ha tagliato gli impegni di lavoro per stare con il pargolo o i casi di padri divorziati in lotta con le madri per il diritto alla paternità. Di tutto un po’, spesso senza visione d’insieme o, peggio, impastando indistintamente la realtà con il pregiudizio, dando luogo a due letture opposte.
Per alcuni questa è l’era dell’eclissi del padre e di tutti i valori che il suo ruolo rappresentava: la norma, l’autorità, l’ordine, la distinzione tra bene e male, la guida verso l’autonomia. Per altri, al contrario, è l’era del «nuovo padre», affettuoso e accudente, in completa rottura con il passato. «Oggi – afferma lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet – c’è sete di un padre presente, affettivo, responsabile, coinvolto, capace di guidare e accompagnare il proprio figlio. Anche se sono molti i nostalgici del padre autoritario e repressivo, che ogni tanto ritorna sulla scena sociale magari sotto forma di apertura di nuove carceri minorili o del 5 in condotta. Queste due visioni si contendono il campo».
 
Papà in carne e ossa
 
Pochi si sforzano di guardare negli occhi i padri in carne e ossa, nel loro quotidiano e silenzioso impegno di mediare tra antico e moderno, alla ricerca di un ruolo tutto da costruire, in una società profondamente cambiata.
Ma chi sono questi papà? L’Istat dice che sono i più vecchi d’Europa: hanno il primo figlio a 35 anni, in media due anni dopo rispetto agli altri Paesi. Sono padri, quindi, rimasti «figli» a lungo, in parte per ragioni culturali – non si esce di casa senza sicurezze e certezze – in parte per difficoltà oggettive, legate alla precarizzazione del lavoro e alla carente protezione garantita dal welfare. Rispetto al passato sono molto più coinvolti nella cura dei figli, ma anche qui il dato è da leggersi in controluce. Alla nascita di un figlio, aumenta il tempo per la famiglia, che diventa di 1 ora e 23 minuti in media al giorno, ma tale aumento è esclusivamente dedicato al bambino (circa 45 minuti) mentre rimane invariato il tempo riservato ai lavori domestici. Indicative le attività preferite: il 60 per cento del tempo è dedicato al gioco e all’interazione, mentre è marginale – appena 20 minuti – il lavoro di cura vero e proprio.
Il coinvolgimento cresce in caso di padre giovane, con titolo di studio e livello occupazionale alto, soprattutto se la madre lavora e non ci sono altri aiuti esterni. Ma in generale la nascita del figlio tende piuttosto a ripristinare, pi√π marcatamente rispetto agli altri Paesi europei, le vecchie divisioni: il padre aumenta il tempo di lavoro rafforzando la tradizionale funzione di sostegno economico della famiglia, la madre invece aumenta la presenza con il figlio, diminuendo gli impegni esterni.
Se ne ricava che il cambiamento della figura del padre è certamente in atto, ma procede con lentezza, come del resto ci si può aspettare nel caso di modelli consolidati. Nel ruolo paterno convivono vecchio e nuovo: «Se non si può non riconoscere la crescente assunzione di responsabilità da parte dei padri, l’impegno paterno è nel contempo discontinuo, spesso limitato alle attività meno gravose e di routine e frequentemente esercitato in caso di necessità» affermano le sociologhe Francesca Zajczyk ed Elisabetta Ruspini, autrici del libro Nuovi padri? (Baldini Castoldi Dalai).
La commistione tra vecchio e nuovo e la confusione che ciò provoca nei nuovi padri ha molte radici. Le più antiche e più studiate sono l’aumento della scolarizzazione e l’entrata nel mondo del lavoro delle donne. Ma la trama delle concause è intricata. Basti pensare al primato dell’individuo tipico della società moderna, alla rottura con tutti gli schemi e i valori del passato, alla rincorsa all’autorealizzazione di entrambi i sessi, all’entrata sempre più tardiva nel mondo degli adulti e delle responsabilità, alla crisi dell’istituto matrimoniale, alla denatalità, all’aumento dei divorzi e delle separazioni e, per finire, al cambiamento più recente, quello che ha portato alla precarizzazione del mondo del lavoro e a nuove generazioni senza sicurezze e senza accesso a un reddito sufficiente a garantire un’esistenza dignitosa. Un’onda che ha investito in pieno l’essenza e i modi d’essere genitore, frantumando lo specchio del vecchio padre – autoritario, lontano, custode delle regole, sostegno economico della famiglia – in mille pezzi, scomposti, in cerca di un nuovo incastro. In questo percorso verso il nuovo i padri italiani si sono trovati particolarmente soli, un po’ per l’atavica difficoltà maschile «di osservarsi, di capire i propri mutamenti» come affermano le sociologhe Zajczyk e Ruspini, un po’ perché in Italia «una seria e articolata riflessione critica sul genere maschile non si è mai avviata», afferma un’altra sociologa, Fulvia D’Elia.
«È una trasformazione troppo recente – controbatte Pietropolli Charmet –. Però è vero che il padre non è mai stato studiato seriamente, piuttosto veniva preso in giro, lo chiamavano “padre mammo”, deridevano la sua mascolinità».
Ciò che ha fatto fare una svolta all’opinione pubblica è stato un fenomeno nato dal basso: il movimento per i diritti paterni che s’innesta nel più generale men’s right movement, presente ormai in tutti i Paesi occidentali. Si tratta di padri separati che reclamano, spesso con toni accesi, parità di diritti e doveri nei confronti dei figli, denunciando la loro discriminazione rispetto alle madri nelle cause di affidamento. Nel libro Di padre in padre (ed. La Meridiana), la psicologa Anna Coppola De Vanna racconta il dolore di quei padri «arrabbiati, delusi, impotenti, tristi, sofferenti, amareggiati, quasi sempre perdenti nei confronti delle madri rispetto ai figli… Ho sempre pensato che fosse loro stata imposta una funzione di autorità, di mediazione con la realtà, con l’impegno, con il dovere e che per far questo avessero dovuto costruirsi una maschera di severità… avessero dovuto rinunciare alle parole, trattenere i gesti, ricacciare le lacrime… Quanta ricchezza persa».
Sta di fatto che il padre separato, pressato dagli eventi, è diventato suo malgrado un innovatore sociale, ha iniziato a gridare al mondo la sua sete di paternità. Se l’universo maschile è in discussione, lo è anche quello femminile. E una nuova sintesi dev’essere trovata. Ed ecco che in questi ultimi anni la società ha iniziato a recepire il cambiamento. Lo dimostrano due leggi:
la legge 53 del 2000, conosciuta con il nome di «congedi parentali» che estende anche ai padri la possibilità di usufruire di periodi di astensione dal lavoro per prendersi cura dei figli nei primi otto anni di vita; e la recentissima legge 54 del 2006 che, in caso di separazione e divorzio, cerca di privilegiare l’affido condiviso dei figli tra genitori, piuttosto che quello in via esclusiva.
Inutile dire che entrambe le leggi stanno trovando grandi resistenze culturali, ma sono comunque la spia di un percorso in divenire.
Un percorso che ha il suo centro pulsante in un rapporto nuovo tra uomo e donna, un rapporto pi√π libero dai condizionamenti del passato e dal conflitto che il cambiamento ha provocato tra i generi.
«Credo che il presente ci dia nuove opportunità – afferma Lucio, 34 anni, un figlio di un anno – e una libertà di esprimere noi stessi che i padri del passato non avevano. Chi è vera famiglia oggi è più forte e consapevole. Non lo è solo per le convenzioni e le regole. Ogni donna può diventare madre, ma un uomo può diventare padre solo se sente un profondo legame di coppia».
 
I papà del futuro
 
Un abbozzo di nuovo futuro che lo psichiatra Pietropolli Charmet registra come la più grande delle novità: «Il bambino oggi nasce nella mente del padre in modo del tutto diverso. Nel passato lo incontrava dopo la nascita e già sapeva che tipo di padre sarebbe stato. Adesso il bambino è concepito nella mente dell’uomo dentro la relazione eterosessuale matura e stabile, caratterizzata da grande passione, e in fondo nasce sulla base di una fecondazione femminile: è la donna che fa capire al suo uomo che è stato scelto oltre che come partner anche come padre». E da questa fecondazione nasce la tenerezza: «L’affetto per mio figlio è un miglioramento – afferma Giulio, forzando ancora una volta la sua riservatezza –. Per certi aspetti è più facile essere un padre autoritario. Riuscire invece a modulare la dolcezza e la severità quando serve, richiede molta più intelligenza emotiva. La paternità vissuta è più di servizio ed è molto faticosa». «I papà di oggi – conferma Pietropolli Charmet – hanno un incontro precoce con i loro bambini; anzi, se continuano a rimanere loro accanto, vengono costruiti dai loro figli». Un padre che si mette in gioco, continua lo psichiatra, è un padre più adatto ai nuovi tempi: «I ragazzini che incontro nel mio lavoro non sentono il bisogno di regole, norme e valori gestiti da un padre dispotico, sentono piuttosto il bisogno di un padre competente, accuditivo e autorevole, che sia veramente nel ruolo, capace di svolgere la sua funzione di guida nell’avventura meravigliosa della conoscenza, della crescita e della socializzazione».
E il tempo di questo padre è già iniziato.      
 
 
L’educatore. Nei panni di un papà
 
Che cosa significa essere un buon padre oggi? Risponde Ezio Aceti, psicologo ed educatore.
Msa. C’è chi considera l’affetto dei padri un segno di debolezza, rimpiangendo il padre severo di un tempo, quasi fosse più efficace.
Aceti. Sono frottole. Quello che conta è il tipo di rapporto che il padre instaura con il figlio, che deve costruirsi fin dalla nascita, anzi fin dalla gravidanza. L’altra grande frottola è la tesi dell’«istinto materno», spesso caldeggiata proprio dai cattolici: le madri imparano a fare le madri a forza di farlo e lo stesso vale per i padri. E allora il padre inizi a fare il padre subito e continui, in ogni fase della vita: dal biberon al fidanzamento. Altro consiglio: un paio di volte al mese, il padre esca con la moglie e manifesti al figlio l’importanza del rapporto di coppia, anche se lui protesta e vorrebbe andare con loro. Sembrano piccole cose, ma attraverso di esse il bambino inizia a costruirsi un pensiero suo sulla realtà e sul mondo.
La crescita del bambino, per cultura o per mancanza di tempo, in molti ambiti è appannaggio delle madri: pensiamo alla scuola per esempio.
Padre vuol dire norma, regola, autonomia: la scuola quindi dovrebbe comprendere il padre, che non significa semplicemente comprendere il maschile. È un male, per esempio, che i padri non vadano a parlare con i maestri e i professori. Chiediamo che le riunioni a scuola si facciano alle otto di sera e non alle quattro del pomeriggio. Cominciamo a esigere una società diversa che prenda in considerazione la nostra autonomia, altrimenti involviamo.
Qual è il dono educativo più bello che un padre può fare al figlio?
Lo spiego con un esempio. Dall’età di sei anni il bambino non è più il figlio dei suoi genitori, ma è un estraneo che è loro affidato. Proprio a quest’età il padre faccia un contratto con il bambino: gli elenchi tutti i mestieri di casa e gli chieda di sceglierne cinque. Eviti di dire: «Aiuta la mamma a fare i mestieri», perché lo renderebbe ancora dipendente. Il bambino protesterà − e la protesta è l’espressione più bella, perché è fatica, costruzione di sé − ma poi i due verranno a un accordo: compito del bambino sarà, per esempio, apparecchiare la tavola. Ebbene, è sufficiente che il padre per quindici giorni controlli che il bambino apparecchi e quel bambino lo farà per tutta la vita. Qualcuno dirà che il bambino obbedisce per paura, ma la vera ragione è un’altra: egli segue la regola perché essa è segno del padre che si prende cura di lui nella realtà. Il padre è colui che ti porta nella realtà ma ti lascia da solo sostenendoti: questo è amore ed è anche il regalo più grande.
 
Giulia Cananzi
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)