L’e-mail del 16 gennaio 2004 segna una svolta: «Tra 11 mesi avrò 18 anni, dovrò scegliere che cosa fare con la mia vita. Voglio studiare qualcosa che mi permetta di aiutare questi Paesi del Terzo Mondo, voglio fare qualcosa di utile»
del 14 settembre 2017
L’e-mail del 16 gennaio 2004 segna una svolta: «Tra 11 mesi avrò 18 anni, dovrò scegliere che cosa fare con la mia vita. Voglio studiare qualcosa che mi permetta di aiutare questi Paesi del Terzo Mondo, voglio fare qualcosa di utile»
Quito, Ecuador, 2003. Alessia Mairati, 16 anni, novarese, è appena atterrata grazie a una borsa di studio per trascorrervi l’intero anno scolastico. Racconta via e-mail a mamma Paola e papà Giovanni la nuova vita, le amicizie, un Paese tanto diverso. Ma dopo pochi mesi le sue lettere si fanno sempre più cariche di tristezza e incredulità: descrivono scene «strazianti ed esasperanti» che hanno come palcoscenico le baraccopoli, gli orfanotrofi, le strade di un Paese in cui pian piano scopre «posti e persone dimenticati dal mondo».
L’e-mail del 16 gennaio 2004 segna una svolta: «Tra 11 mesi avrò 18 anni, dovrò scegliere che cosa fare con la mia vita. Voglio studiare qualcosa che mi permetta di aiutare questi Paesi del Terzo Mondo, voglio fare qualcosa di utile». In un’e-mail successiva scrive al padre: «Oggi sono andata in un orfanotrofio femminile. Sono fuori da quel posto, ma il mio cuore è rimasto lì. Vivo in una realtà difficile… è la triste realtà del Paese che sempre più mi sta rubando il cuore. Voglio fare qualcosa nel mio piccolo, e lo farò: ho in mente un progetto che però deve essere realizzato».
Novara, giugno 2004. Giovanni riceve una telefonata: Alessia è ricoverata in ospedale. A seguito di una reazione allergica ha subìto uno shock anafilattico ed è entrata in coma. I genitori volano subito da lei e la trovano in sala rianimazione: non vede, non sente, non si muove, non parla. Dopo alcuni giorni tuttavia è fuori pericolo, miracolosamente: per arginare lo shock, prima del trasferimento in ospedale, le è stata praticata solo la respirazione bocca a bocca. Solitamente ci vuole ben altro per sopravvivere.
La giovane comunque, lentamente, ritorna alla vita. Racconta di aver visto, durante il coma, una luce gialla, intensa, e di aver provato una sensazione di benessere incredibile. Ricorda anche persone con i capelli lunghi e biondi che pregavano vicino a lei e dice che la sua bisnonna le ha parlato, avvertendola che quello non era il suo momento e che doveva quindi tornare indietro. Afferma di aver assistito al suo funerale: «Una funzione allegra in cui le persone battevano le mani. C’erano diverse bare e tu, mamma, non c’eri». Tutte le mattine Alessia chiede di ricevere la Comunione, «nonostante prima di quest’esperienza non fosse particolarmente praticante». Continua il padre: «Vuole che porti fiori gialli alla Madonna nella cappella dell’ospedale. Poi desidera braccialetti, collane e orecchini tutti gialli. Era come se quello, il colore della luce, fosse diventato il suo. Ale era diversa, non era più la figlia che conoscevo. Era palese la sua sofferenza, ma cercava sempre di celarla con il sorriso sul volto».
Alla fine del mese, papà Giovanni torna in Italia per lavoro e per organizzare il rientro di Alessia e della moglie in aeroambulanza. Il 2 luglio l’aereo parte da Quito e fa scalo tecnico a Panama, ma durante il decollo il velivolo si schianta contro un hangar. Muoiono in sette, comprese Alessia e sua madre. Il 10 luglio viene celebrato il funerale. Una funzione allegra, con musica gioiosa. Le campane suonano a festa, le persone applaudono e… la mamma non c’è.
Giovanni, improvvisamente, si trova da solo con l’altra figlia piccola. «Ma tutto questo mi ha dato una forza e una fede incredibili», racconta. «Le e-mail di Alessia sono diventate per me un testamento morale che volevo e dovevo onorare. Tutto ciò che da quel momento in poi avrei fatto sarebbe stato nel nome e per conto di mia figlia».
Casa Alessia onlus viene fondata da Giovanni nel 2006. Lo scopo iniziale è quello di donare un edificio in Ecuador in cui ospitare bambini senza tetto, ma alcune difficoltà burocratiche e logistiche impediscono l’acquisto della struttura. Ci si impegna allora nella costruzione di un orfanotrofio gestito dalle Sorelle della Carità in Burundi. «Il 26 giugno», ricorda Giovanni, «sto riordinando alcuni ritagli di giornale quando casualmente apro una cartelletta gialla che riguarda Alessia. Mi capita in mano una lettera scritta da lei cinque anni prima e indirizzata a una certa suor Vittoria, nata proprio in Burundi, che aveva condiviso con lei una stanza d’ospedale alcuni anni prima. Contatto immediatamente le Sorelle della Carità, alle quali avevo già consegnato l’assegno per l’orfanotrofio, e loro mi confermano che quei soldi sarebbero arrivati in Africa proprio attraverso suor Vittoria. Un caso? No, per me non lo è. È stata Alessia a volere che fosse proprio lei a compiere la prima missione».
A Quito Casa Alessia è poi arrivata lo scorso anno, nel decennale della sua fondazione, per ristrutturare un centro gestito dalle Missionarie della Fanciullezza a favore dei bambini di strada. Nel frattempo, grazie a un’infinita serie di “coincidenze” «guidate da lassù», l’associazione ha compiuto centinaia di “missioni” in tutto il mondo, finanziando ovunque e continuamente progetti a favore dell’infanzia. Quanti? Giovanni non riesce a tenere il conto: sono troppi. Così come una marea sono i volontari che da anni rendono possibile questo miracolo. Ma nulla sarebbe successo se questo ex bancario, uomo del Nord dai modi pratici e sbrigativi, sempre indaffarato e di corsa, non si fosse lasciato trasformare da una tragedia che non ha saputo interrompere la vita di sua figlia, bensì moltiplicarla.
Famiglia Cristiana
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