L'analisi grammaticale di «Ti voglio bene»

Prendi un testo tratto da un libro che parla del senso dell'amore in sant'Agostino. E un adolescente di oggi che ha voglia di pensare. «Ma quando dico "ti voglio bene", uso un nome o un avverbio?». Giovanni mi ha stupito ancora! Sono davvero insospettabili questi adolescenti. Altro che generazione X!

L'analisi grammaticale di «Ti voglio bene»

da Quaderni Cannibali

del 28 luglio 2011

 

 

          «Ma quando dico 'ti voglio bene', uso un nome o un avverbio?». Giovanni mi ha stupito ancora! Sono davvero insospettabili questi adolescenti. Altro che generazione X! A volte sono abilissimi a dissimulare il centro del loro essere, ma quando sentono che non c'è pericolo a lasciarsi andare, allora mostrano delle perle che ancora mi stupiscono dopo 20 anni che li frequento.

          Giovanni fa la terza, vive per lo skate, i suoi si sono separati l'anno scorso dopo 19 anni di matrimonio. Lui quasi non ha fatto una piega. Sornione, sveglio, regolare quanto basta per non dare troppo nell'occhio, all'apparenza riservato, ma invece molto libero quando le cose può deciderle lui, soprattutto con le ragazze... Già l'anno scorso mi aveva colpito con alcune domande 'oblique' sulla storicità di Cristo, che avevano stuzzicato un po' la mia attenzione per le cose fuori asse.

          Finita l'ora della settimana scorsa, mentre scrivo il mio registro, si accosta alla cattedra e mi fulmina con quella strana domanda:  ma quando dico 'ti voglio bene', uso un nome o un avverbio?  «Ma che domanda mi fai Giovanni»? «Béh si prof, quel pezzo che abbiamo letto prima mi ha fatto pensare. Se quando dico 'bene' uso un nome allora quello che fa differenza tra un amore finto e uno vero sono le cose che facciamo. Se invece fosse un avverbio sarebbe meglio. La differenza sta nel modo con cui le facciamo». Giovanni in italiano ha 8 e in matematica viaggia sul 5, che strano! Ma la cosa strana è che un testo tratto da un libro che parla del senso dell'amore in sant'Agostino, riesca a far pensare un adolescente di oggi che passa il pomeriggio allo skatepark. Eppure succede. E la riflessione di Giovanni, fatta ovviamente come spesso accade in un interstizio del vero tempo scuola, ha del sugo.

          E mentre ascoltavo quasi incredulo le parole di Giovanni mi è venuto in mente il famoso «vi riconosceranno da come vi amerete». E mi sono chiesto: Gesù Cristo è un nome o un avverbio? L'essenza del suo messaggio si condensa in un modo di fare o in certe cose da fare? La questione non è nuova. Già a proposito del senso del peccato la teologia ha visto da tempo che si può dire 'non volere bene' intendendo non volere il giusto oggetto di bene che la nostra natura prevede che ricerchiamo, ma anche si può dire non volere bene nel senso che il nostro volere si muove non secondo le modalità che la nostra condizione creaturale ci impone di avere. E mi sono venuti in mente alcuni problemi che la chiesa oggi attraversa, che la suggestione di Giovanni, per quello che vedo io, mette a nudo.

          Tanto per non andare lontano a cercare un esempio riguardante la ferita della pedofilia. La sensazione che ho su questo è che la Chiesa abbia preso consapevolezza chiara del problema delle azioni, della perversa sostituzione del bene vero di amore, con un bene falso, il bambino reso oggetto. E che su questo ci sia in atto un processo di pentimento sincero. Ma temo che manchi una altrettanto chiara consapevolezza della perversione della modalità di bene che la pedofilia mette a nudo.

          Giustamente Roberto Beretta su questo sito ha messo in evidenza come questa sia legata al potere e al modo con cui esso viene vissuto. Anche Dio può essere reso oggetto del nostro malato desiderio di felicità. Pensare di risolvere la questione pedofilia (ma non solo questa!) solo con una sostituzione del contenuto dell'atto di potere non ci porterà lontano. Va cambiato il modo.

          Credo che Gesù Cristo sia più un avverbio che un nome, in radice. Un avverbio che sì, chiede certe azioni e ci ammonisce su altre. Ma per Lui, il contenuto dell'atto morale viene dopo rispetto al modo con cui lo si fa, perché Dio guarda il cuore. Il peccato originale non si configura come un non volere Dio come proprio bene. Eva si muove spinta dal desiderio di essere come Lui. (!!) Il suo peccato sta nel modo di volere Dio come proprio bene, perché lei tenta di prendere Dio per sé, con un atto della propria volontà, senza aspettare che sia Lui a donarsi agli uomini. La perversione è del come, non del cosa.

          «Ma lo sai, Giovanni, che questo tipo di domande sono proprio ciò che il cardinale Bagnasco ha chiesto?». Egli ha esortato così i giovani: «Aiutateci ad essere educatori credibili ed efficaci, incalzateci con le vostre domande, siate pronti e generosi nel giocare voi stessi». Credo che Giovanni inconsapevolmente abbia ascoltato il cardinale. Allora l'auspicio è che anche noi ci lasciamo interrogare da quelli come Giovanni, o da chi nel proprio dolore esprime, magari fuori dalle righe, domande intense e radicali sul senso dell'amore. Ne va del senso della parola Gesù per l'uomo di oggi. E tra lo stupito e il fiero Giovanni mi ha detto: «Beh prof non è che io ci tenga a fare quello che dice questo cardinale, ma mi fa piacere saperlo».

 

Gilberto Borghi

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